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Oggetti, cimeli, reliquie del Museo del Risorgimento

1796 | 1870

Schede

"Nel 1884 […] si aprì, annesso all’Esposizione Nazionale di Torino, il Padiglione del Risorgimento. Quanti anni sono passati da allora! Eppure io ricordo, come se fosse ieri, la profonda commozione dell’animo mio nel visitare quel recinto, nel quale, da ogni parte d’Italia, erano stati raccolti ritratti, bandiere, armi, medaglie, autografi, vecchi opuscoli, quanto insomma poteva ricordare di che lagrime e di che sangue fosse bagnato il serto dell’Italia redenta […] Che brividi per le ossa, nel vedere quei lembi di tela che il povero Poma si strappava di dosso per iscriverci sopra col proprio sangue una parola, un avvertimento, un consiglio, un allarme che potesse a lui o ad altri porgere un barlume di speranza in quell’orribile, lungo, sanguinoso processo! E gli autografi del Pellico e degli altri martiri del ’21? E i ritratti o in piccole miniature o in riproduzioni fotografiche ingiallite, di quei mille che avevano gemuto nel fondo delle prigioni od avevano fatto olocausto della loro vita nel segreto delle cospirazioni, od al sole sfolgorante delle patrie battaglie? […] La mia Bologna mandava irrefragabili documenti per provare come essa fosse insorta nel 1831 ed avesse fin d’allora, e per prima, proclamata la decadenza del governo temporale dei Papi e come nel 1843 per opera di un pugno di valorosi, un manipolo ostinato di anime datesi perdute, avesse di nuovo tentato di assaltare, sui monti di Savigno, le rocche della prepotenza pretesca… E del 1848 e 49 quante belle e gloriose memorie! E dei processi terribili del 1852 quanti lugubri richiami, quante pagine desolate! E del 1859, 60, 66 e 67 quanti ricordi di volontari dell’Esercito o dei Garibaldini accorsi sui campi di battaglia, ritornati superbi della medaglia al valore, o non ritornati più!".

Le parole scritte da Raffaele Belluzzi a prefazione del Catalogo illustrativo del Tempio del Risorgimento italiano costituito nel 1888 rivelano al tempo stesso lo spirito che animava quanti si adoperarono per far nascere i Musei del Risorgimento e l’estrema varietà tipologica del materiale che essi andarono raccogliendo a questo fine. Ben presto tali materiali furono «ovunque strutturati in alcuni gruppi fondamentali». A Bologna, in particolare, essi vennero suddivisi in «oggetti, documenti, fotografie e litografie, volumi ed opuscoli, stampati volanti e giornali». La categoria degli «oggetti» (che a Modena venne invece chiamata, con un termine significativo, «ricordi») nel citato Catalogo si trova ulteriormente suddivisa nei seguenti nove gruppi: Ritratti, Luoghi e avvenimenti, Bandiere e stendardi, Uniformi, parti di uniformi, figurini, ecc. Armi, proiettili, buffetterie, ecc. Monumenti, ossari, busti, lapidi, ecc. Medaglie e sigilli, Monete e decorazioni, Cose varie.

La semplice analisi di tali gruppi rivela quali diffcoltà dovesse incontrare l’esigenza classificatoria e ‘tassonomica’ di quanti, conformemente alle tendenze prevalenti nella museografia dell’epoca, intendevano dare un ordinamento scientifico ai musei del Risorgimento. I primi due si riferiscono a soggetti raffigurati (contengono quindi materiali iconografici: dipinti, stampe, disegni, fotografie…). I sei gruppi successivi sembrerebbero invece indicare semplicemente diverse tipologie di oggetti. Anche qui però la logica interna dell’ordinamento è soltanto apparente, dal momento che a ciascuno di essi non vennero ascritti soltanto gli oggetti indicati, ma anche i materiali iconografici che li raffgurano; come si vede, i figurini militari – fossero essi disegni, dipinti, fotografie, stampe – vennero equiparati alle «uniformi»; allo stesso modo all’interno del gruppo «monumenti, ossari, busti» furono inseriti non soltanto quegli oggetti, ma anche le fotografie o le stampe che li raffiguravano. Quanto all’ultimo gruppo, le «cose varie», esso risulta propriamente parlando una ‘non-categoria’ avente apparentemente funzione residuale, alla quale ascrivere cioè tutto ciò che non era possibile fare rientrare nei gruppi precedentemente identificati. Per altro, anche soltanto dal punto di vista numerico esso appare ben più che residuale, contando oltre 140 oggetti e superando, come consistenza, buona parte degli altri. Quest’ultimo gruppo è costituito in gran parte da sottogruppi tipologici di piccola entità. Analizzando più dettagliatamente, di questo gruppo fanno parte ad esempio 17 coccarde, 15 sciarpe, 6 nastri, 7 fazzoletti, nonché 6 oggetti descritti come «capelli»: si tratta in effetti di ciocche di capelli (o di barba) appartenuti a Giuseppe Garibaldi, Giuseppe Mazzini, Angelo Masini, Goffredo Mameli e Piero Maroncelli. Un sottogruppo piuttosto numeroso (9 oggetti) è poi quello costituito da oggetti appartenuti a Ugo Bassi; tra gli altri, vanno ricordate «una zolla di terra intrisa» del suo sangue «raccolta segretamente dal donatore, presso la fossa in cui fu sotterrato»; una «palla da cui fu ferito […] a Mestre, con lettera di legalizzazione»; un «colletto […] che dimenticò in casa dell’espositore quando dovette lasciar la repubblica di San Marino la sera del 1° agosto 1849»; una «croce tricolore che portava sul petto […] durante la campagna del 1848». 

Tra le «cose varie» troviamo anche un gruppo di ‘ricordi’ relativi a Maroncelli: le sue «bretelle, ricamate dalla moglie»; la «berretta a calza fatta da Silvio Pellico», un «fazzoletto che portava al collo col numero di carcerato» e un «porta-sigaretta». È quindi nell’ultimo dei nove gruppi che si trovano quei ‘feticci’ che, secondo alcuni studiosi, rischiavano di trasformare i Musei del Risorgimento in «botteghe di rigattiere o in santuari di pinzocchere» e di cui venne proposta l’eliminazione durante il Congresso del 1906: "dove andremo a finire se noi mettiamo in mostra gli oggetti trovati nelle tasche di un soldato morto combattendo, vicino al bastone che servì ad un dabben cittadino per difendersi contro gli assalti della polizia austriaca nel 1848, e poi un fazzoletto, un frammento di cranio, ciocche di cappelli, peli di barba, berretti, bicchieri, occhiali, borselli, matite, cannuccie, letti, scanni e via dicendo? L’esposizione di questi ‘feticci’ (ci si passi il termine) che rendono omaggio più all’essere corporeo che all’idea da lui professata non solo non è dignitosa ma non sarà mai utile sotto il rispetto educativo né storicamente capace di destare interesse". Come è noto, dopo un serrato dibattito il Congresso rifiutò le tesi più radicali degli ‘iconoclasti’ e "augurandosi che la raccolta dei documenti nei Musei del Risorgimento sia fatta con scelta giudiziosa e con senso sicuro della critica […] e sulla base di criteri scientifici, pur non eccedendo in eccessive generalizzazioni" non mancò di evidenziare che "i Musei del Risorgimento debbono avere sempre di mira, anche nell’ordinamento, lo scopo educativo e popolare al quale principalmente sono diretti, e si rimette alla costituenda Società [Nazionale per il Risorgimento] per la determinazione di relativi criteri". Si trattò in sostanza di un compromesso, che lasciò i direttori dei vari musei liberi di seguire il proprio personale orientamento. Il nostro Fulvio Cantoni era più favorevole ad un ordinamento scientifico di molti suoi colleghi, eppure anche il museo di Bologna non fu certo immune dalla propensione alla dimensione reliquiaria e al relativo feticismo. Il fatto è che era impossibile eliminare le ‘reliquie’ senza snaturare l’identità stessa dei musei del Risorgimento: lungi dal costituire un gruppo tipologico tra gli altri, al quale ricondurre un numero limitato di oggetti, quella delle ‘reliquie’ costituiva in realtà una sorta di meta-categoria, uno status che in qualche modo, in misura maggiore o minore, secondo diversi gradi di intensità, doveva essere riconosciuto ad ogni oggetto, indipendentemente dalla tipologia di appartenenza, al fine di assicurare ad esso il pieno diritto di fare parte della raccolta museale.

Nella tradizione religiosa, ‘reliquia’ è in senso forte il resto corporeo: le ossa, i capelli, il sangue… In questo senso, la designazione di ‘reliquia’ può essere attribuita a pochi oggetti; nel Tempio del Risorgimento del 1888 troviamo ad esempio gli «ossicini di Ciceruacchio, figli e compagni, fucilati dagli Austriaci nel 1849 a Cà Tiepolo Polesine, lungo le rive del Po»; le «schegge d’osso di Federico Maiari, estratte dalla grave ferita da lui riportata a Monterotondo»; il «fazzoletto insanguinato che aveva indosso il colonnello Cesare Boldrini il giorno 8 maggio 1849, in cui fece la sortita da Porta Galliera mentre gli Austriaci tenevano stretta d’assedio Bologna», o i citati «capelli» e la «zolla di terra» insanguinata. Negli anni successivi, ne entrarono in Museo altre, come ad esempio il «quadretto-reliquia» con capelli, barba e un minuscolo brano di stoffa rossa appartenuti a Giuseppe Garibaldi, raccolti nel 1874 a Caprera da Enrico Albanese, medico del Generale, e donati nel 1913 da Maria Pascoli, per volontà del fratello, il poeta Giovanni. Sebbene fossero un numero limitato, a questi oggetti veniva attribuita grande importanza, come mostra la citazione da cui siamo partiti, che si sofferma proprio su uno di essi: il «lembo di tela» che il «povero Poma» scrisse col proprio sangue. Quando poi un oggetto di altro tipo conservava tracce di resti corporei non si mancava mai di metterlo in evidenza, enfatizzando così la sua dimensione reliquiaria: della «camicia del volontario garibaldino Imbriani Giorgio di Forlì, morto a Digione (Francia) nel 1871» il Catalogo del Tempio precisa che era «lacerata dai proiettili e inzuppata di sangue»; della giubba del volontario garibaldino Primo Baroni (1860) si dice che «si vede la traccia della ferita riportata a Milazzo»; di quella di «Guida garibaldina appartenente al volontario Alessandro Calanchi», che «conserva la traccia di una ferita». Sembra quasi superfluo precisare che di nessuna di esse venne riportato il materiale, né il colore, che pure sarebbe stato interessante rilevare: pur essendo tutte di provenienza garibaldina, avevano infatti colori diversi tra loro: la prima (che non venne donata al Museo di Bologna) era con ogni probabilità rossa, la seconda marrone, la terza grigio-azzurra… Qualche anno dopo, furono donati al Museo due «ferri chirurgici adoperati dal capitano dottor Cesare Conti bolognese, per medicare il martedì 3 luglio 1866 la ferita del Generale Giuseppe Garibaldi, riportata poco prima della battaglia di Montesuello»; si trattava di «una pinzetta ed uno spicillo», che vennero conservati per ricordo dal donatore «ancora insanguinati». In un senso più lato, può essere definito come ‘reliquia’ ogni oggetto che è o si presume appartenuto o connesso alla persona venerata; da questo punto di vista anche ad oggetti che non erano in senso stretto ‘reliquie corporee’ poteva essere attribuito questo status, come evidenziano le loro descrizioni catalografiche. Esse infatti non mancano di porre in evidenza il rapporto tra l’oggetto e il suo possessore, più precisamente ancora, tra l’oggetto e il suo stesso corpo: delle uniformi ad esempio si sottolinea da chi vennero ‘indossate’ (o ‘portate’) e in quale circostanza, e analogamente avviene per le armi, le bandiere, i proiettili, ecc. Tanto più il possessore dell’oggetto era ritenuto importante, tanto meno contavano le caratteristiche intrinseche dell’oggetto per decidere in merito alla sua conservazione: dei personaggi minori, soltanto le uniformi o le armi potevano entrare in Museo; di Garibaldi invece vennero conservati e religiosamente esposti il berretto, un bastone da passeggio rotto, uno stivale… Con una valenza di significato ancora più ampia, viene detta ‘reliquia’ qualsiasi oggetto conservato e venerato come un sacro ricordo: in base a quest’ultimo criterio, in cui il concetto di ‘reliquia’ tende a fondersi con quello di ‘cimelio’, ad ogni tipo di oggetto poteva essere riconosciuto questo status, in quanto ricordava un personaggio illustre, testimoniava un’impresa eccezionale, o almeno documentava un’epoca storica. La citazione iniziale da cui siamo partiti lo evidenzia con chiarezza; ciò che rendeva un oggetto degno di essere conservato non era anzitutto la sua appartenenza ad un determinato gruppo tipologico: non tutti i ritratti, le bandiere, le armi, le medaglie… entravano in museo, ma soltanto quelli che potevano assolvere alla funzione di «ricordare di che lagrime e di che sangue fosse bagnato il serto dell’Italia redenta».

Concludendo, si può dire che le ‘reliquie’ costituiscano al tempo stesso il cuore e l’anima dei musei del Risorgimento. Proprio questi oggetti di piccole dimensioni e privi di ogni valenza estetica, artistica, economica, di ogni attrattiva che potrebbe essere distraente rispetto a ciò che davvero è essenziale, non soltanto risultano essere i più emblematici, ma costituiscono un vero e proprio paradigma rispetto al significato profondo di tutti gli altri oggetti, i quali entrano a fare parte della collezione in quanto cessano di essere semplici ‘oggetti’ e vengono riconosciuti come ‘cimeli’, traendo dalla ‘dimensione reliquiaria’ il loro valore ultimo.

Mirtide Gavelli, Otello Sangiorgi

In collaborazione con IBC - Istituto per i beni culturali dell'Emilia Romagna.