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Le ville di Bologna

1796 | 1939

Schede

Dire delle ville di Bologna nostra non si può in breve volgere di poche pagine. Per ognuna bisognerebbe fare un libro non tanto per parlar delle origini e dei trapassi di proprietà, fino ai giorni nostri, ma più specialmente per narrare le vicende, le quali son legate ai costumi, ai modi di vita di coloro che abitarono: famiglie d'antica tradizione, grandi titoli, grandi fortune e in proporzioni del casato più dei mezzi, le spese. Nobiltà del settecento! La costumanza degli svaghi in villa, comincia con quella che fu la più oziosa della nobiltà. Se si eccettuino pochi austeri e sapienti, gli altri profusero il loro danaro in questo vivere lussuoso: vestiti, carrozze, cavalli, servitori, caccie, ricevimenti. Qualche patrimonio fu intaccato, qualche altro cedette al soverchio dispendio, altri puntellarono le traballanti fortune con dei matrimoni, nei quali l'interesse valse più dell'amore a stringere i nodi restauratori; i più robusti resistettero. 

Penso, talvolta, che la storia della società si dovrebbe fare traverso le vicende delle famiglie; la storia più vera, s'intende, che tiene calcolo dello sgretolarsi delle condizioni economiche e del formarsene altre sulle macerie di queste. Il mutare, lento e inesorabile, di un patrimonio, cui serve da lievito e da corrosivo, o l'ambizione, o l'imbecillità, o la vanità, o il vizio, o il disordine e per converso la parsimonia e la capacità, ha lo svolgimento di un romanzo ed è tutto vero per la inoppugnabile testimonianza dei documenti, i quali son lì a dimostrare come a questo mondo nulla sia immutabile ed eterno tranne lo spirito. Nel settecento una aristocrazia feudataria attinse i fastigi della propria vanità. I nobili allora non facevano professione altro che del proprio titolo. Non supponevano, essi, nemmeno che i loro pronipoti, nati in tempi ne' quali l'uomo fosse stimolato non tanto per quel che possedeva, quanto per quello che dava alla vita di opere d'ingegno e di quotidiano lavoro, di cui il possedere era conseguenza, necessario o non necessario elemento primordiale, si sarebbero industrianti in quel modo migliore che conveniva e alla loro casta e al loro casato. (...) Torniamo indietro nel tempo. Un viaggio fantastico pei luoghi che accolsero la più illustre società bolognese e ne videro l'ascesa e il tramonto. Il passato per un momento ritorna. Cogliamone il senso pittoresco.

Andiamo su per la strada di Camaldoli. Un tempo, in cima al poggio vi era un convento di Camaldolesi – donde il nome – poi il luogo passò in commenda al Sacerdote Alberto, cugino del Cardinale Ottavio degli Ubaldini. Creato Vescovo di Volterra nel 1261 il prete rinunziò tutto agli eremiti che vi eressero una scuola per i giovani che volessero dedicarsi al loro ordine monastico. Nel 1392 i camaldolesi sono in commenda al Cardinale di S. Susanna. Nei secoli che seguirono le vicende del convento furono varie ed alterne. Talora fu dei monaci, tal'altra in commenda. Quindi fu abbandonato. Nel 1860 il Genio militare distrusse ogni cosa e in luogo dell'ermo costruì un forte. Sulla via Siepelunga ai piedi della collina si trova una gran croce ad indicare la strada che conduceva al cenobio e per ricordare il monumento storico scomparso. La tradizione popolare ha conservato il nome; e col nome di Camaloli chiama tutta la collina, comprendendo anche quel che fu poi più propriamente denominato Belpoggio per l'incantevole vista che offre a chi di là riguarda alla città ed alla campagna che si stendono a perdita d'occhio in gran cerchio d'intorno. Forse Belpoggio deve il suo nome a Giovanni II Bentivoglio? Leggiamo nel Ghirardacci. Con quel suo stile aspro e disuguale ma vivo, parlando delle ville che il signore di Bologna fece costruire, munificente ed ospitale, nelle terre prossime alla città, dice: in questi tempi (1490) Giovanni Bentivoglio fabbrica in vari luoghi del territorio bolognese... e fra le altre fabbriche a Ponte Poledrano ove era una torre dove fece un superbo palazzi in fortezza da potervi albergare onoratamente ogni gran signore, e la chiamò il Bentivoglio per essere stato edificato da lui, ne fece fabbricare un altro alle Tombe, e uno vicino a Bologna che mirava la Città e alla campagna con una bellissima fontana nel cortile, e con un'altra torre dove stava una gran campagna, chiamando detto Palazzo Belpoggio per essere fabbricato sopra un piccolo colle. Giovanni II fece di Belpoggio il suo soggiorno preferito. Vi ricevette principi ed artisti, vi dette feste e conviti con splendore di lusso e regale magnificenza. Ben a ragione la sua corte fu ritenuta una delle più sontuose fra quelle dei principi italiani che fiorirono nel secolo XV. Né mancarono per celebrare il luogo ed il signore, poeti e scrittori. Sabatino degli Arienti dedicò la sua «Ginevra da le clare donne» a Ginevra Sforza, e nell'ultimo capitolo intitolato «Instruzione dell'opera che se presenti a la mia excelsa Madona dove debba stare perpetuamente», licenzia l'opera sua col mandarla «a trovare Ginevra nel suo delizioso palazzo di Belpoggio». Son note le fortune avverse che perseguitarono il Bentivoglio e Ginevra Sforza. Fuggiti da Bologna dove a furore di popolo fu fatto il guasto del palazzo in via S. Donato – il più gran delitto del secolo, disse Corrado Ricci – morirono in esilio. La villa di Belpoggio, Giovanni II la lasciò in dote a Lucia sua Figliola naturale, che andò moglie di Alessandro Sforza Attendolo adottato da Filippo dei Manzoli suo avo paterno, del quale assunse il nome. Belpoggio passò di famiglia in famiglia, per nozze e parentadi, al marchese Filippo Hercolani che nel 1786 fece ricostruire la facciata che oggi si vede si disegno dell'architetto Carlo Bianconi. Cosa resta ora dell'antica dimora del Bentivoglio? Nulla tranne la torre che si vede tutt'ora in quella parte del maestoso palazzo Hercolani, da chi percorra la strada che conduce a Monte Donato. Tra la fine del secolo XV e il principio del XVI era la sola villa che allietava di sé il colle che traeva nome dalla sua positura, ma altre ne furono costruite nei secoli venienti, men fastose forse e men ricche d'arte e di magnificenza ma più di quella fatte gradevoli dalla visione dei colli circostanti e dalla pianura. Una tra tutte tolse il nome dalla storia e si chiamò anch'essa Belpoggio, così che, anche oggi, quando nomina il sito non è certo pel ricordo dell'antico signore bolognese, né per Ginevra, né per le pagine dedicatorie e rievocative di Sabatino, né per altro segno della scomparsa grandezza alla quale i bolognesi non furono affatto riverenti.

Parliamo della villa che fu del principe Felice Baciocchi. Fu fabbricata verso la fine del cinquecento e si compose di tre ville distinte, ciascuna con poderi propri. Appartennero da prima alla famiglia Casali, una delle maggiori di Bologna, per ricchezza e parentado, discendenti dal ceppo originario di Orvieto, e dette uomini egregi al senato, alla chiesa e alla diplomazia. Dai Casali passò ai Malvezzi Campeggi, quindi fu degli Stella, dei Vettori, di Galeazzo Pepolo, che la comperò nel 1766 per 6000 quattrini, finché la villa, o per meglio dire due delle tre ville ond'era composta, fu acquistata da Giovanni Bottoni di Ferrara, che ne divenne proprietario nel 1819. Il Bottoni per dissesti finanziari, vendette nel 1827 la proprietà al principe Felice Baciocchi che, comperata anche la terza villa nel 1831 la restaurò, abbellì, trasformò nella forma che ancora oggi si ammira. Sarei tentato, qui, di riandare, non pure il ritorno del Principe Baciocchi a Bologna, allorché Elisa Bonaparte morì nella residenza comperata da un greco nel comune di Villa Vicentina il 7 agosto 1820, ma vorrei dilungarmi piuttosto a ricordare il gran Corso, il cui nome e la gloria, allora folgoranti di già nell'alba trionfale, son legato ai fasti maggiori di due tra le principali ville bolognesi. Debbo accontentarmi di un fugacissimo cenno: la materia meriterebbe un volume.

Nel 1797 Napoleone venne per la seconda volta a Bologna. Era sul finire del febbraio. Interrotta la quotidiana fatica, con una passeggiata a cavallo, il generale, accompagnato dal suo stato maggiore e da trenta cavalieri della «Guardia Civica» si recò il giorno 25 alla Croce del Biacco, nella villa Monti – ora di proprietà Malvezzi – ospite festeggiato e gradito. Prima di lui erano arrivati in carrozza la moglie e la sorella cui facevan seguito diverse dame bolognesi. Sedettero a colazione tra la più viva allegria. Napoleone stesso volle servire in tavola, poi levate le mense, in maniche di camicia si mise a far la «Strega» con gli ufficiali della civica tra le più matte risate di tutti i conviventi, uomini e donne. Verso sera tornò in città. Nel 1849 la villa della Croce del Biacco, per rappresaglia contro il proprietario conte Giovanni Malvezzi, che comandava la Guardia Civica durante l'assedio di Bologna, fu messa a sacco dagli austriaci che sfogarono la loro rabbia contro le cose, non potendo colpire gli uomini. Anche oggi si vedono dei marmi spezzati ed i segni del vandalismo conservati con gelosa religione patriottica. Anche Luciano Bonaparte fu a Bologna dal 1822 al 1835 e con lui vennero la moglie Alessandrina Bleschamp e la figliastra e il figlio. Da prima abitò al Casino Scarselli fuori porta Castiglione – ora villa Rosa – quindi per poco tempo al palazzo Beauharnais – oggi palazzo del Governo – finché comperò per 30 mila scudi romani dal conte Cesare Bianchetti la villa alla Croce del Biacco ed andò ad abitarla il 20 giugno del 1822. Questa villa, una delle pù amene tra quante sono nelle vicinanze della città, divenne uno dei ritrovi della società facoltosa ed elegante. Luciano vi fece costruire un teatro e negli ozi tranquilli della villeggiatura, preparava e dirigeva delle recite cui assisteva la nobiltà bolognese ed illustri come il cardianele Mezzofanti. Il 3 luglio 1823 fu recitata una tragedia dello stesso Luciano. «Le neuveux de Clovis», e ne furono interpreti la marchesa Anna Sampieri, esso Luciano ed i figli e la moglie Alessandrina che scrisse un vivace resoconto al figliolo Carlo emigrato in America assieme con lo zio l'ex re Giuseppe.

Dall'alto dell'Osservanza domina la città e i dintorni, superba con suo colonnato classico e melanconica come se stesso sempre in attesa dell'Eroe leggendario che non la vide mai e pure di lassù in una sosta del suo lavoro immane, aveva goduto, compiacendosene del superbo panorama circostante. La villa Aldini, ha origini napoleoniche. Narra il Lenzi nel suo libro su «Napoleone a Bologna» che nella seconda giornata di permanenza qui e precisamente nel maggio del 1805 – il Grande Corso, fu invitato assieme con Giuseppina e il seguito a colazione dal Ministro Marescalchi a Mezzaratta. Levate le mense, Napoleone montò a cavallo e via a spron battuto verso la cima del colle dove era il chiostro e la chiesa della Madonna del Monte, chiamata dal popolo «Madonna della vittoria», dacché Annibale I Bentivoglio vinte le schiere di Luigi Dal Verme, restituì a Bologna una effimera libertà che a lui fu ripagata con la morte per mano dei Canetoli nemici acerrimi di casa bentivolesca. Divenuta proprietà dell'«inclito ordine» benedettino – qui lasciamo parlare Pietro Bosi, compilatore dell'«Archivio patrio di antiche e moderne rimembranze felsinee» - vi dimorò e morì S. Bernardino l'«Eremita», quivi S. Domenico fu alcuni mesi, fuvvi S. Antonio di Padova, il Legato S. Carlo Borromeo, quivi pure vennero a passare alcun tempo anche grandi italiani, tra i quali i chiari diplomatici: cardinale Jacopo Isolani, il cardinale Achille Grassi, e cardinale Lorenzo Campeggi e monsignor Della Casa e Bembo, ecc. Accompagnava lassù il Re d'Italia anche il Ministro aldini. Faceva da cicerone il gran scudiero Caprara cui non parve vero far pompa col suo padrone di una erudizione storico artistica che se fosse tutta propria e tutta genuina lascio giudicare al prof. Giovanni Natali conoscitore e indagatore geniale della del nobile bolognese. Disse tra l'altro il gran scudiero che «il buon conte Savioli ci scrisse alcune delle sue anacreontiche, ché quel bel cielo, quell'impotente veduta di natura, sono più che ogni altro luogo felici ispiratori di poetiche idee». A Napoleone forse non importò niente e del Savioli e dei suoi versi, né dell'opere pittoriche dell'Avanzi, di Filippo Lippi, né di Giotto – è sempre il Bosi che narra – ma fu preso, ammirato conquistato dalla veduta che si godeva lassù, e vi si trattenne a lungo, poi prima di discendere, disse, rivolto all'Aldini: «C'est magnifique. Non conosco luogo più di questo atto ad innalzarvi una casa per il Re d'Italia». Che dicesse proprio queste parole si può anche mettere in dubbio, che l'Aldini accogliesse le parole ammirative di Napoleone come una sollecitazione questo sì è da credere, soprattutto perché l'Aldini sperava di poter invitare, come aveva fatto il Marescalchi, l'Imperatore nella sua villa quando l'avesse fatta e magari anche rivendergliela. Dopo pochi giorni in casa della bella e colta e amabile Martinetti – una delle stelle che brillarono nel firmamento bolognese – si tenne una «consultazione» a proposito della parole dell'Imperatore, alla quale intervennero i due ministri Aldini e Marescalchi, il gran scudiero Caprara, il Cicognara, gli ingegneri Giusti, Nadi, Martinetti e lo scultore Francesco Rossi. Aldini, che erano suoi, perché comperati nel 1802, fece demolire i ruderi poi su disegni del Nadi, fu fatta la villa. L'Appiani doveva decorarla, ma mentre si stavan facendo gli intonaci per l'affresco, crollò il colosso napoleonico. Aldini aveva pochi mezzi e gli convenne sospendere la grande opera, che rimase incompiuta. Nel 1820, il Ministro fu costretto a cedere la villa a Paolo Bignami, che a sua volta, anch'esso a corto di mezzi, la vendette nel 1831 per tremila e 600 scudi ad un imprenditore, il quale l'aveva comperata per demolirla e vendere il materiale guadagnandovi sopra. Quando i manovali misero mano al guasto, la città si commosse «alla novella del brutto vandalismo». Ci si misero di mezzo senatori, il Preside dell'Accademia di Belle arti, S. E. il cardinale, finché il 7 marzo del 1832 un decreto pontificio invitò il Comune di Bologna a rivendicare l'insigne edificio «sembrando assai più conveniente che un'opera tanto sontuosa ed eretta per un Monarca, appartenga piuttosto al pubblico che ad un privato».

Scendendo dalla villa solitaria pel viale ripido ed ombreggiato fermiamoci un poco a «Mezzaratta». Si può prendere fiato a salire. Ebbene, giacché facciamo un viaggio immaginario, noi ed i cortesi lettori, capovolgiamo le consuetudini e facciamo conto di aver bisogno di un poco di riposo. Fra le ombre che custodiscono la dimora di Marco Minghetti ci viene incontro la storia del nostro risorgimento, di cui il bolognese fu uno dei fautori più intelligenti e consapevoli. Il collaboratore di Cavour venne a passare a Mezzaratta le giornate di tregua alle preoccupazioni della politica ed a godere un po' di pace, lui, che governando la carne umana dal 1848 ne aveva conosciuto di tutte le qualità: da quella diplomatica a quella guerriera; dagli intriganti ai politici diritti e schietti ed onesti, che sono una rarità ancor più rara, da quelli che avevan la schiena adatta a piegarsi in ogni direzione, a coloro che andavano a viso aperto diritti allo scopo. La incomparabile serenità, la naturale distinzione, il senso profondo della sua superiorità ch'egli dissimulava con tratto del perfetto gran signore, tolsero all'uomo di serbar rancore ai nemici e gli concessero di apprezzare gli amici con una cordialità pari soltanto alle doti morali dell'animo suo, fatto per comandare, per farsi ubbidire e per avere molta indulgenza per gli errori altrui; purché, bene inteso, non intralciassero il suo ideale supremo: l'Italia. Di tanto in tanto andavano a visitarlo a Mezzarata uomini eminenti, scrittori, artisti, scienziati, amici politici sopratutto coi quali si intratteneva preferibilmente degli affari di governo e di questioni economiche e finanziarie care al suo ingegno versatile, fecondo e vasto, e armonico, non meno di quelle dell'arte, tanto che, capo della della destra, dopo aver sanato il bilancio assieme con Quintino Sella, potè scrivere, quando la democrazia e la massoneria fecero la famosa rivoluzione parlamentare, una documentata e ariosa vita di Raffaello Sanzio, che per uscita dalla penna di uno il quale, per tutta la vita, non si si a occupato che dell'Urbinate. Fu proprio a Mezzarata, che nel 1882 avvenne il colloqui tra Sella e Minghetti per decidere se la destra doveva adattarsi ai tempi nuovi, alle mutate condizioni del paese o irrigidirsi sulle antiche e superate posizioni. Minghetti stava per il trasformismo, giacché, diceva, la politica è un moto continuo verso mete ideali e pratiche e conviene che si trasformi – di qui il nome alla modificazione della fattiva politica del partito – Sella sosteneva la tesi opposta. I due luogotenenti di Cavour non s'intesero e ciascuno andò per la sua strada. Del vecchio partito liberale, con o senza il trasformismo, non resta oggi che il ricordo. Signora della casa era donna Laura, sposata in seconde nozze allo statista. Dal primo marito il Principe di Camporeale le era nata una figlia che fu moglie del principe di Bülov. Non posso ricordare questa che fu senza dubbio una delle italiane maggiori del suo tempo, senza inchinare la fronte reverente alla sua memoria, e poi che ebbi l'onore di esserle presentato quando ero appena un esordiente nella professione che doveva darmi tante gioie e tanti dispiaceri, ne rievoco il ricordo con animo commosso. In lei raro l'ingegno, rato il tratto, eletta la parola, accoglienti i modi che nella affabilità e nella gentilezza rivelavano la razza e la educazione. Un giorno Alfredo Oriani, uno dei frequentatori di casa Minghetti, mi raccontava di un pranzo alla villa. Commensali: Marco Minghetti, donna Laura, Ruggero Bonghi, Camillo de Meis, il principe di Bülov e lui, Oriani. Il solitario di Casola Valsenio, commentò il romagnolo: Ui n'era dl'inzegn, ch'al dè a Mezzarata. Nel 1913 andò ad ossequiare la padrona Lord Kitchener.

Là dove è la villa Revedin, un tempo i cappuccini avevano il loro convento e il luogo si chiamava Monte Calvario. Erano circa un centinaio di frati, tra laici e sacerdoti. Pregando, meditando, elemosinando vivevano tranquilli e in Dio felici. Svago alla raccolta austerità dello spirito: guardare intorno e contemplare la magnificenza dello scenario che si stendeva davanti ai loro occhi. Il Calindri al volume III, pagina 281 del suo dizionario, sciogliere un inno di ammirazione pel luogo quant'altri mai ridente e per il convento e ne fa una particolareggiata descrizione, alla quale rimandiamo il lettore che ne voglia sapere di più. Quando vennero i francesi a Bologna ed i cappuccini furono soppressi, la Direzione demaniale vendette all'avvocato Giovanni Maria Regoli l'ex convento, che cedette poi in vitalizio al conte Filippo Bentivoglio, non del ramo di Giovanni II. Il Bentivoglio costruì la villa e la chiamò Belvedere. L'appellativo val di più di una descrizione, ma se volessimo seguire lo storico e del convento e della villa, cominceremmo col dire che, lo si riscontra, parliamo il linguaggio del primo ottocento, salendo lungo la strada panoramica di S. Mamolo, e che fu decorata, abbellita, fregiata da artisti egregi. Che sarà mai avvenuto dei dipinti che erano nella antica chiesa tra cui uno di Ferdinando Galli Bibiena? Togliendo a prestito da un volumetto di Augusto Lipparini colore e forme, diremmo altersì del verde dei campi, delle pendici apriche, dell'ergersi molle del ripiano sul quale la villa si ammanta, dell'azzurro del cielo, quando fa sereno, e del profumo dei campi, quando è primavera. Cose che ognuno se le immagina da sé per poco che lo aiuti facile la fantasia. Ma il sito, continuiamo a parlare dell'antica, è davvero incantevole, onde fa meraviglia non l'abbia cantato, almeno con una quartina sonante, un poeta agreste. La villa fu dimora estiva preferita dal cardinale Opizzoni. L'ebbe prima in affitto dal Bentivoglio, l'illustre porporato, poi la comprò e la tenne cara fino al 1855, anno in cui morì, lasciandola in eredità al Cumulo della Misericordia dal quale nel 1857 la comperò il conte Pietro Revedin di S. Martino di Ferrara. Da lui ebbe il nome che anche oggi le resta.

Quella villa di là subito da Corticella a pochi passi, si può dire, dal passaggio a livello sulla strada di Castel Maggiore, che ha un maestoso cancello con su i pilastri maggiori due sfingi in riposo, modellate dallo scultore bolognese Giovanni Putti, con un folto d'alberi che abbracciano a semicerchio il vastissimo giardino, era di Marcello Malpighi. Lo scienziato in tanta in tanta pace suaditrice di grandi pensieri – bene inteso a chi da natura abbia avuto i segni interiori dei grandi uomini – nel tempo estivo meditava, sperimentava, faceva dotte e pazienti ricerche. Vi scrisse anche alcune delle sue opere di anatomia e di scienza naturale, per le quali conquistò vasta rinomanza europea. La villa divenne in seguito di proprietà dell'avvocato conte Luigi Salina, il quale alle molte opere di amplificazione e di abbellimento, aggiunse anche un medaglione in marmo del Malpighi uscito dallo scapello di Giacomo De Maria.

Chi può supporre che quel palazzo accanto allo Zuccherificio, dove sono gli uffici dell'importante industria, fu la villa di Carlo Broschi conosciuto col nome di Farinelli. Farinelli? E chi è costui? Chiede uno che passa per la strada ed ha più dimestichezza con le partite di calcio, che con la storia del tempo. Sic transit gloria mundi: e quella dei Broschi fu gran gloria per un cantante, celebre e celebrato soprano del settecento. Sulla parete ove ora sono appese le tabelle della fabbrica, c'erano i ritratti di due imperatori, d'una imperatrice, di tre re di Spagna e di altri sovrani e principi, alla cui corte Farinelli aveva trionfato. La principessa D'Orange bionda – allora le dame e le cameriere non usavano ossigenare i capelli, si che la chioma della gentildonna al dono di natura non aveva aggiunto nessun artificio per apparire più avvenente – pareva ansiosa di discendere dalla sua cornice per accompagnare, come aveva già fatto a Londra, arie di Handel. Tutta la gloria di lui riviveva in questa villa, ch'egli s'era fatta allestire nel 1732, quando, nato com'era a Napoli, aveva ottenuto la cittadinanza bolognese; senza prevedere; senza prevedere che soltanto nel 1760 avrebbe potuto abitarla stabilmente. Trent'anni di vita spesi a dar concerti in tutte le grandi città d'Europa, vivendo da gran signore.., fra il fragor degli applausi, il sorriso delle gentildonne, l'amicizia e la confidenza dei grandi. Toccò l'apice della gloria e della fortuna alla corte di Spagna. Fin dal primo giorno in cui aveva cantato a Madrid, il meraviglioso soprano ebbe una pensione favolosa anche per quei tempi; duemila sterline al mese. E da quel giorno, per dieci anni, il Farinelli aveva cantato al Re ipocondriaco e taciturno quattro arie al giorno, sempre le stesse; aveva dato il ritmo agli intrighi di corte e d'alcova, aveva governato da re facendosi servire da Filippo V da prima, poi da Ferdinando IV, finché Carlo III, poco rispettoso dei diritti di quell'ugola, lo rimandò a Bologna. La villa, ch'ora suona intorno del moto delle macchine e del vociare dei bovari che conducono i carri delle bietole, accolse nel silenzio il Farinelli coi suoi ricordi, i suoi doni, i suoi quadri, il suo clavicembalo. Gli stranieri vennero ancora a visitarlo. Gli amici si recavano da lui per fargli festa. Né mancarono donnine graziose, che soleggiarono il ritiro col loro sorriso. Ma venne anche il nipote Matteo Spisani, con la sposa, Anna Gatteschi, tanto vivace e tanto bella da far dannare un santo. La coppia singolare aveva preso subito dimora in casa dello zio. Il quale per quanto soprano finì coll'innamorarsi pazzamente della nipote. Corrucci, ira, scenate. Divampò la gelosia. Per farla breve diremo che lo Spisani fu costretto ad una «fuga»precipitosa e la Gatteschi restò a lungo in quella villa prigioniera del Farinelli che le faceva da carceriere. Siamo parchi di parole, anche se per avventura la mente dovesse ricorrere ad immagini poco raguardose di ben costrutti orecchi.

Ma, giunti alla fine del nostro troppo veloce viaggio, faremmo una capatina a villa Caprara, se, da molto tempo, non fosse stata abbandonata; solo per ricordare che ospitò Elisa Bacciocchi, quando abbandonata per sempre la Toscana, fu a Bologna nel 1814, donde poi dov'è trasferirsi in Austria vigilata come una prigioniera. Una sosta del pensiero, un cenno solo, senza metter piede a terra, poi via di nuovo. Risaliamo il colle di Barbiano. Fermiamoci un momento alla villa Cassoli-Guastavillani. Vorremmo per guida il Gozzadini; ma purchè parlasse alla buona e non ci narrasse del luogo e di quel che si vede a guardare intorno; con una lingua come quella onde si valse per dettar un «omaggio di ricordanza e di spetto» al marchese proprietario. È vero che un siffatto parlare lo storico insigne e dell'arte e dell'archeologia bolognese, l'usò nel 1832: e da allora in poi il gusto s'è alquanto cambiato, ma, giusto cielo, anche a quei tempi non tutti eran come lui dei classici i quali per amor dello stile aulico, scrivessero una prosa così sussiegosa così manierata, così retorica. È vero, questa villa non ha l'eguale, che nella villa Aldini, per l'orizzonte che abbraccia per la verità non mai sazievole. Dal paesaggio ch'essa domina dall'alto e per sorridere al sorriso di verde che da ogni parte sale a lei e si confonde con l'azzurro del cielo sterminato. La villa, per volontà del conte Rinaldo Cassoli, figlio della marchesa Virginia Guastavillani, morto a 42 anni di spagnola l'11 dicembre 1918, ospita ora un centinaio di bambini. Le sue sale austere risuonano delle risa e dei canti di questi piccoli beneficiari. (...)

Ecco la villa Albergati, a Zola Predosa. Del marchese Teodoli: edificio maestoso al quale si giunge per un viale diritto, tracciato in mezzo ai campi, con atto di volontà imperativa. La fece costruire Girolamo Albergati: e volle che «nella maggior sala» vi stesse dentro il Palazzo «Magnani alle Tombe». Forse la tradizione popolare ha messo frange alla versione originaria incontrollabile, ma dipinge alla maniera secentesca l'uomo dovizioso di quattrini, di cultura e di albagia. Il Marchese impegnò nella fabbrica tutti i suoi coloni ed ogni sabato faceva mettere in fila, schierati a guisa di lanzichenecchi, i muratori, e lui, a cavallo di un asinello, dava la paga a ciascuno. Figurarsi i discorsi della gente, la malignità dei rivali, le dicerie degli sfaccendati. Terminata la villa per far vedere che non era rimasto in bolletta, diede un grande pranzo per amici e nemici e in luogo delle scranne fece mettere dei sacchetti di monete. Anche questa è una invenzione sicuramente, ma serve a dar colore ed io per questo me ne giovo. Certo è però che fu privilegio del casato Albergati dar convegni e feste nella villa. Nel 1709 Federico IX di Danimarca che viaggiava in incognito sotto il nome di Conte d'Oldemburg, il 12 marzo si recò a Zola per vedere il palazzo famose e fu accolto con musiche, trattato con magnificenza. Il marchese Francesco qui recitò le sue commedie e vi accolse Carlo Goldoni.

I Malvezzi eressero a Bagnarola, sulle costruzioni che furono dei Cospi, la villa che tutti conosciamo col nome di «Malvezza» il quale a rigor di termini non sarebbe proprio. Dopo la morte di Aurelio Malvezzi, nel 1657 i figli monsignor Floriano ed il marchese Matteo miser mano al palazzo e terminato che fu, lo chiamarono Borgonuovo di Bagnarola. Il Ghiselli nell sua cronaca dedica alla villa frasi di ammirato colore e dice dei «bellissimi passeggi di verdura coperti, luogo per cavallerizza e per tornei, teatro per commedie – fu fatto su disegni del Bibbiena – fontane, statue, uccelliere, parchiere». In questo scenario così vario e ricco di ogni delizia naturale, nel parco ampliato e rammodernato, nelle loggie frescate dal Reni, dal Colonna, dal Tibaldi, dal Gandolfi, furono dati concerti allegorici che il settecento gaudente amava.

San Martino in Soverzano è il castello più ragguardevole di tutto il contado, se si toglie la Rocca di Bazzano e Monteveglio, l'unico che mostri quali fossero anticamente le dimore dei signori, tutte a fortilizi, e torri e mura e merli e ponti levatoi. La eressero i Conti Manzoli si di una vasta tenuta che fin dal 1337 appartenne agli Ariosti. I Manzoli ne furono spogliati dai Bentivoglio, quindi, dopo una aspra e lunga lite, per intromissione del Cardinale S. Sisto, Ugo Boncompagni, salito al trono pontificio con nome di Gregorio XIII, riebbe il castello che passò in eredità a casa Marsigli Duglioli e da Marsili per trapassi successivi è ora del Conte Francesco Cavazza. Il quale ai molti meriti che lo fanno caro è stimato ha quello di amare d'un amore illuminato e sapiente la sua Bologna. Spese senza risparmio in opere egregie e dette incremento alla «Bologna storico artistica» di cui è presidente, e fu amico di Alfonso Rubbiani, quello della «Gheldria», come osò chiamarlo il scontroso e permaloso e valentissimo ingegner Ceri, che non poté mai perdonare né all'artista che immagina e condusse a termine, liberamente, il ripristino della vecchia Bologna, né ai gregari, di avere bocciato un suo progetto di rifacimento della facciata di San Petronio. Da quel giorno fu guerra dichiarata tra il geniale toscano trapiantato qui a «mandare e giudicare» senza peli sulla lingua, e senza troppo rispetto dei meriti altrui, quando non gli andavano a genio, ed i rubbianeschi, ma le ire, espresse talora in versi di sapida e svelta fattura, non tolsero al Rubbiani ed ai suoi di perseverare onestamente nell'opera loro. E fu gran fortuna per la città e per l'arte.

Sebastiano Sani

Testo tratto da 'Ville di Bologna', nella rivista 'Il Comune di Bologna', giugno 1939. Trascrizione a cura di Zilo Brati.