Schede
Cause remote e prossime. L'insurrezione | Le tre giornate del luglio 1830 avevano scossa e rianimata l’Europa. Anche nelle nostre terre la eco era stata grande, l’entusiasmo indescrivibile. Marco Minghetti a quei fatti di Francia fa risalire il suo primo ricordo politico, chiaro e vivo. “Eravamo in campagna, a Cadriano, ed ecco giungere in carrettino un fratello di mia madre, Pio Sarti, (fervente patriotta, che mise ogni sua opera nel concetto di liberare l’Italia). Veniva in gran fretta, e agitava da lontano alcuni fogli. Erano i giornali che recavano la notizia della rivoluzione di Parigi. Questo mio zio era un liberale ferventissimo, mescolato in tutte le cospirazioni di quel tempo. Adunque fu letto, me presente, tutto ciò che i giornali narravano esaltando quelle così dette eroiche giornate e traendone grandi speranze per l’avvenire, non solo della Francia ma di tutto il mondo”. Il mondo va avanti spesso di utopie; anzi queste, alle volte, valgono ad accelerare gli avvenimenti più di qualsiasi altra forza. Si pensi, per quelli che ancora se ne ricordano, l’apporto, per la fine della guerra, dei tanto allora conclamati quattordici punti di Wilson! Ma stiamo al 1830-1831. Luigi Filippo d’Orléans, innalzato al trono con le giornate del luglio, si venne a trovare ben presto di fronte a due forze contrastanti e avverse: liberalismo e reazione. Come scegliere la propria via? Egli aveva sempre militato nelle schiere più rivoluzionarie; era stato compagno, da lunghi anni, di tutti i più accesi carbonari e cospiratori non solo francesi ma cosmopoliti. Portato al trono dalle forze popolari più diverse, logicamente avrebbe dovuto schierarsi e stare dalla parte del popolo. Ma, nella politica, quasi sempre, ha avuto ed ha più forza il calcolo, quello che comunemente si dice Macchiavellismo, che non l’idealità sentimentale ed avveniristica. “Luigi Filippo d’Orléans, natura sordida, ma ingegno destro, impersonò l’ideale borghese della rivoluzione, che lo nominava re facendogli gettare sulle spalle un mantello repubblicano dal vecchio Lafayette, il più ingenuo fra i repubblicani aristocratici. Quindi la sua politica fu doppia. Sulle prime incerto di ottenere dalle grandi corti d’Europa sempre collegate nella santa alleanza il riconoscimento della propria nomina regale liberaleggiò prodigando promesse a tutti gli insorti e proclamando il non intervento ai monarchi contro le rivoluzioni”. Ma di fronte a ciò stava la paura di essere sospinto tropp’oltre e di attirarsi addosso la guerra di tutta l’Europa. Insomma, in principio, fece una politica doppia, anche, forse, nell’incertezza di prendere un partito deciso e risoluto. E ciò gli servì magnificamente, da una parte, per spaventare tutta l’Europa, sorpresa e mal preparata ad una rivoluzione continentale, e, dall’altra parte, a confortare e illudere i popoli a insorgere senza una promessa esplicita di aiuto.
Sollevazione di popoli | Dietro l’esempio della Francia, si sollevarono il Belgio, la Polonia, la Spagna, il Portogallo; rumoreggiò la Svizzera, allargando le leggi popolari; Sassonia, Prussia, Baviera ed altri stati della Germania tumultuarono; in fine Parma, Modena, Bologna tentarono di scuotere il giogo legittimista. Laffitte, primo Presidente del Consiglio dei Ministri di Luigi Filippo, aveva annunziato dalla tribuna di Francia: La France ne permettera pas que le principe de non intervention soit violé. Il Sebastiani, Ministro per gli Esteri, più tardi, ribadì il concetto che la Francia avrebbe saputo far rispettare il principio del non intervento, e la libertà di tutti. E il Dupin, famoso oratore, uno degli uomini più devoti alla Casa Orleanese, dichiarò, fra lo stupore del mondo, che quell’atteggiamento era la plus noble attitude que puisse prendre un peuple fort et généreux, senza pensare che per mantenere la nobile attitudine bisognava apparecchiarsi alla guerra.
Utopie: principio del non intervento | Insisto su questa dichiarazione del principio del non intervento, perché fu la leva che contribuì maggiormente a mettere in agitazione i popoli, a farli sperare cose più grandi di quelle che erano nelle possibilità degli eventi, degli Stati, della maturità degli uomini a congrue evoluzioni. Il non intervento negava l’intervento, quello che aveva proclamato e adottato la Santa Alleanza, quello che aveva praticato nel 1820-1821 l’Austria, soffocando le rivoluzioni in Stati non suoi, restaurandovi l’assolutismo, attribuendosi la funzione di tutrice dell’ordine e della pace dei popoli, ben s’intende della pace mancipia. Il valore, pertanto, della dichiarazione del non intervento, fu d’una importanza e d’una portata eccezionali, di così vasti effetti che appena noi, oggi, possiamo rendercene conto. La Francia ancora una volta pareva dar la mano a tutti i popoli oppressi. Già tutti gli scontenti, tutti i novatori, tutti i sognatori, tutti o quasi tutti gli oppressi ed i gementi in servitù, pensavano chiuse le frontiere che potevano portarci novelle aggressioni e sventure, e, invece, pensavano, contemplavano, idealizzavano, sognando e risognando, aperte quelle frontiere che ci avrebbero portato, anzi che senz’altro ci portavano gli aiuti dei popoli amici. Poche volte si sono date illusioni tanto grandi. Parevano tutti elettrizzati, magnetizzati del sogno, poco prima così lontano, così impossibile, così inaspettato.
Gli esuli italiani in Francia | Ad accrescere grandemente le illusioni contribuirono i profughi italiani che già calcavano terra straniera, e che, come sempre avviene, fuori della realtà, vedevano le cose più facili di quel che in effetto erano. Già dai tempi del governo reazionario di Carlo X si era costituto, a Parigi, un Comitato cosmopolita, tendente a raccogliere sotto di sé tutti i ribelli al trattato della Santa Alleanza. Luigi Filippo stesso ne era uno degli adepti. Accanto al Comitato cosmopolita, quasi una filiazione di quello, si costituì il Comitato italiano, sotto la guida di Guglielmo Pepe, che già aveva combattuto per la libertà e l’indipendenza di Napoli nel 1821 e che, ora, continuava la opera come esiliato: Comitato che aver per scopo di organizzare la guerra contro la Austria e di conseguire l’indipendenza per l’Italia, con l’aiuto della Francia liberale. A tale Comitato italiano era demandato il compito di dirigere la pubblica opinione liberale italiana; in altre parole, di concertare e di dirigere la imminente insurrezione. La quale, secondo i disegni del Comitato, doveva scoppiare in Italia, e precisamente nelle Romagne, dove c’era maggior irritazione e maggior fermento contro il dominio teocratico. Ciro Menotti, come abbiamo visto, era il capo predestinato per la propaganda e per la direzione del moto in Italia. Toscana e Romagna erano state da lui ripetutamente visitate e catechizzate. Il Misley, inglese d’origine, ma modenese di nascita, aveva prima acquistato o credeva di aver acquistato alla causa dei carbonari il Duca Francesco IV di Modena, come il principe prescelto a dar tutto l’appoggio e la forza necessari alla rivoluzione, ingrandendo, in compenso, il suo regno. Ed ora era a Parigi a tenere in contatti sempre più stretti gli esuli ed i cospiratori, pronti tutti, come ad un sol cenno, quando suonerebbe l’ora fatale della riscossa. Com’è noto, fra i Bolognesi, “alcuni, e su tutti l’avv. Antonio Silvani, ricusavano qualunque intelligenza col duca Francesco IV, né lasciavansi per presse e ragioni smuovere dal loro proponimento; giudicavano che in quel modo che ogni opera di libertà si fa con pericolo de’ bravi, così fosse con certa rovina la presente, ove ne pigliasse il potere un principe, e massime del duca che bisognava piuttosto tor via come abbominazione d’Italia”. Le dichiarazioni ferme e risolute di Ciro Menotti, che non il principe avrebbe vessati i popoli, ma i popoli, fatta la rivoluzione, avrebbero disposto di lui, se non avesse mantenute le intelligenze corse, e, più, le dichiarazioni del non-intervento del dicembre 1830 precipitarono ogni discussione. Una sola cosa ormai importava: agire. Il fermento carbonaro nelle Romagne era vivissimo. Ancora nel dicembre il Menotti dichiara all’amico Misley a Parigi d’essere contento del Duca. Costui doveva aver concepito il disegno e la speranza di servirsi dei Carbonari. Non aveva fatto altrettanto Luigi Filippo? Non avendo potuto allargare il suo dominio nel Piemonte; vedendo, forse, poco probabile di potersi estendere in Lombardia, volgeva l’occhio grifagno ed avido sulle terre più vicine e più facili: il territorio papale: Ferrara, Bologna, le Romagne. Ora gl’importava di servirsi dei Carbonari; dopo, avrebbe potuto anche disfarsene. Così pensava di fare di lui Ciro Menotti; così pensava di fare lui dei rivoluzionari. Sulla fine del 1830, il Menotti, a mezzo di Misley, vuol prendere assicurazione che la Francia avrebbe sostenuto, anche con le armi, il principio del non intervento. Il Misley, dal Lafayette, da altri ottiene dichiarazioni rassicuranti. Allora il Comitato di Parigi diramò gli ordini agli affigliati; fu avvertito il Menotti della spedizione su navi francesi di una legione italiana, con 60.000 fucili; fu finalmente fissato il giorno della rivoluzione in Romagna, e nei ducati di Modena e Parma: il 5 febbraio.
Cambiamento di scena | Ma l’abile diplomazia austriaca seppe lavorare tanto bene da togliere agli esuli italiani ogni appoggio della Francia ufficiale, e da portare lo sconvolgimento nelle macchinazioni d’Italia; e cioè da scoprire da quale parte di fatto era e stava il Duca di Modena, e come i rivoluzionari tutti si erano illusi. Abbiamo detto che Luigi Filippo era di natura sordida e calcolatrice. Come ebbe, da una parte, la minaccia che sarebbe stato suscitato e favorito contro la sua ancora malferma monarchia ogni moto bonapartista e borbonico, e come, da altro lato, gli fu fatto capire, dall’Austria e dalla Russia, che l’avrebbero riconosciuto come re, a condizione che non avesse turbato la pace d’Europa, egli non tentennò neppure un poco a scegliere la sua via. Abbandonò gli agitatori, confluiti in Francia come in un effervescente crogiuolo, al loro destino. E non solo tolse ogni appoggio promesso, prima, ai carbonari italiani, ma scoprì ancora più e meglio di quel che l’Austria non conoscesse la cospirazione italiana e la complicità del Duca di Modena. Questi corse tosto ai ripari, e, un po’ per sua natura, che non poteva mentire a se stessa, ed un po’ per riabilitarsi subito ed interamente davanti a Metternich ed alla polizia austriaca che l’aveva sospettato di cospirazione, si dimostrò, qual’era, ferocemente reazionario, sanfedista, antiliberale ed anticarbonaro. Con tale rapido cambiamento di scena in Francia ed a Modena, anche la rivoluzione carbonara in Italia si doveva capire che sarebbe fallita e che già virtualmente lo era fin d’allora. L’Austria veniva ad avere le mani libere per l’intervento. Francesco IV teneva dalla sua parte in Italia, come nessuno dei principi austriaci ed austriacanti. Ed allora sarebbe, forse, stata buona politica, per i rivoluzionari, differire la data della insurrezione; aspettare d’essere meglio preparati; aspettare e cercare nuovi appoggi; aspettare, comunque, di potersi orientare ed assestare.
Ciro Menotti s'accorge del tradimento del duca | Fin dal 7 gennaio Ciro Menotti, da Modena, scriveva all’amico Misley, a Parigi, dicendogli che il Duca Francesco IV era un briccone, perché, per mezzo dei sanfedisti, aveva fatta correre la voce che Menotti e Misley erano suoi agenti, incaricati di costituire qua e là centri rivoluzionari, per poi denunziarli; ciò che gli aveva fatto correre il rischio di essere ucciso dai patriotti. Alla fine del gennaio (1831) il Menotti si accorge (e ne scrive indignato agli amici di Parigi) che il duca era addirittura un “manigoldo”. E allora vuole giocare d’astuzia, anticipando ogni mossa del Duca, anticipando la data dello scoppio della rivoluzione e fissandola per la mezzanotte del 3 febbraio.
La rivoluzione a Modena e a Bologna | Il duca ne è subito informato. Il traditore non manca mai, quando si attendono avvenimenti di qualche importanza, preparati in segreto. La sera del 3 febbraio, prevenendo il moto, il Duca fece assalire la casa di Ciro Menotti, convegno dei patriotti, da 800 poliziotti e soldati con pezzi di artiglieria, dirigendo l’azione egli in persona. Gli insorgenti si difesero eroicamente. Indarno; chè, per pietà dei coinquilini, e di fronte al numero ed all’aggressività degli assedianti, dovettero arrendersi. Il Menotti, ferito, fu tratto via prigioniero con sessanta compagni. La notizia dei fatti di Modena giunse rapida a Bologna. Grande fermento invase gli animi dei cittadini i quali, alla sera dello stesso giorno, si raccolsero in armi davanti al palazzo governativo gridando a tutta voce: Libertà e indipendenza. Qui parve che le cose dovessero passare molto giulivamente. Fu festa più che scoppio di rivoluzione. Avvenne, press’a poco, allora, quel che si ripeterà nel 1847, per la concessione delle riforme, quando, come narra il Giusti in una pagina di prosa incomparabile, la gente, anche quella prima in poco buoni rapporti, s’abbracciava, si baciava, non sapeva come dirsi meglio tutta la propria gioia, il proprio contento; gioia e contento che trasparivano dal volto, dagli atti, dai gesti, dalle parole; gioia e contento che parevano proprio ed in tutto un dono del cielo. Nella piazza maggiore della nostra città, allora, come descrive assai bene nelle prime pagine dei suoi “Ricordi” Marco Minghetti, che, fanciullo, vide, stupito e ammirato, vi fu molto concorso di gente pacifica, allegra, in festa. “Quivi era un mondo di gente che andava e veniva; i più parevano stupiti, altri curiosi, altri davano segno di allegrezza: v’erano genti armate con schioppi da caccia sulla spalla: dinanzi al palazzo del Podestà avevano innalzato una bandiera tricolore, alla quale un giovane faceva la guardia con una coperta scozzese a tracolla. Era questo un parrucchiere che oggi ancora vive (si tratterebbe di Barigazzi Giuseppe, nato 7-2-1892, barbiere che tenne, poi, bottega in via Mercato di Mezzo, oggi via Rizzoli, celebre compositore di Zerodelle.), e la cui bottega fu di poi per lungo tempo ritrovo di liberali e tenuta in sospetto dal Governo: caratteristica dei luoghi e dei tempi… Non una goccia di sangue fu sparsa, non un capello fu torto a persona. La rivoluzione si diffuse ben presto in tutta la Romagna, e parve piuttosto una gazzarra, che una pugna contro il governo costituito”. L’entusiasmo fu generale, e la città risonava di applausi ardenti alla libertà. Già da qualche tempo, narra in una lettera inedita, ch’io renderò di pubblica ragione, al figlio Ernesto Masi, l’avv. Tito Masi, giurista a tutti noto a Bologna: ”Prima del 4 febbraio 1831, si vociferava sommessamente di questa rivoluzione fra noi giovani che in molti ci raccoglievamo al caffè S.Pietro detto allora Spisani. Che in casa nostra frequentava Giacomo Maccaferri, fidanzato di mia sorella Virginia uno de’ caporioni. Che a di lui istigazione Mamma mia e Virginia lavoravano coccarde da una settimana prima del 4 febbraio. Che allo svegliarci la mattina del 5 febbraio sapemmo costituito il Governo Provvisorio nominato dallo stesso Prolegato Monsignor Clarelli, nelle persone ecc… Che io colla coccarda al cappello e la spada al fianco corsi subito al Palazzo pubblico e con altri miei amici fummo incaricati di far la guardia al Palazzo e a contenere la folla. Che poscia nella anticamera del Governo fummo elevati al grado di guardie nobili o a meglio dire di portieri e io fui addetto all’anticamera di Carlo Pepoli, che al suo ritorno dopo 15 anni in patria lo ricordò. “Che facemmo la guardia alla ringhiera sottoposta all’orologio del Palazzo pubblico ecc..”
Gli studenti greci per la liberta' | A Bologna erano parecchi studenti Greci e tra essi si distingueva per spiriti ardenti Tipaldo de’ Pretenderi. Com’egli narra, egli corse a piantare il vessillo tricolore e a fargli da guardia, “come arrabbiato leone, sitibondo di sangue. Che bel giorno fu quello! Allora mi sentii veramente uomo. Da quell’istante mie furono tutte le gioie e tutti i dolori di quell’adorata insegna”.
Pacifico rivolgimento | La truppa fece subito causa comune con gli insorti; non s’incontrava difficoltà da alcuna parte; la concordia era meravigliosa. E ciò, non solo a Bologna, ma anche in tutta la Romagna, dove gli astii, i rancori ed i risentimenti erano ben più grandi ed acuti. “Io credo che le storie di tutti i tempi non abbiano ricordi di un politico rivolgimento, così pacifico e consentito da tutti gli ordini”, dice lo storico della rivoluzione del 1831 in Romagna, Antonio Vesi. Fu festa, adunque, più che sommossa ed insurrezione in principio. Dopo, quando le persone e le nostre contrade vennero messe a durissima prova, con le occupazioni austriache e coll’imperversare della reazione, allora si maturò negli animi, si attuò la vera rivoluzione. “Dopo le brevi feste sopravvennero i giorni torbidi col minacciato intervento degli austriaci e il conseguente accendersi in noi degli spiriti marziali”, dice il precitato avv. Masi. Il 5 febbraio, Modena, riavutasi dal primo stupore, cacciò il Duca, che riparò a Mantova, traendosi dietro Ciro Menotti, freno allora contro le vendette popolari, sfogo, più tardi, alle vendette del tiranno, che nel Martire glorioso volle soppresso l’unico testimone dei suoi ignominiosi tradimenti. Intanto s’emanciparono anche Imola, Faenza, Forlì, Cesena, Ravenna, Rimini: Ferrara imitò l’esempio; Parma, Pesaro, Fossombrone, Fano, Urbino licenziarono i loro governatori; poi Macerata, Camerino, Ascoli, Perugia, Terni, Narni e finalmente Ancona seguirono la rivolta. Il moto si concentrò in Bologna, dove il prolegato della Provincia N. Paracciani-Clarelli chiamò prima a consulto i principali nobili cittadini, poi anche i principali professionisti ed i primari impiegati civili e militari; indi, suo malgrado, dovette accondiscendere alla nomina d’una Commissione provvisoria di governo, delegare ad essa i suoi poteri, istituire una guardia provinciale per la conservazione dell’ordine e per la difesa della vita e dei beni dei cittadini; e, in fine, andarsene. La Commissione provvisoria di Governo ben presto rivestì l’autorità di Governo provvisorio; e la guardia provinciale si trasformò in guardia nazionale, divisa in tre legioni, comandate dal cav. Luigi Barbieri, già comandante la guarnigione pontificia, dal colonnello Cesare Ragani e dal marchese Alessandro Guidotti, tutti e tre già ufficiali negli eserciti napoleonici. A capo della legione d’Imola fu posto il marchese Paolo Borelli. Vennero abbattuti gli stemmi pontifici e inalberate le bandiere tricolori.
I capi del movimento | Gli uomini che si trovarono ad un primo piano in questi primi avvenimenti furono: l’avv. Giovanni Vicini, che diventò Presidente del Governo provvisorio, per la sua anzianità, per il suo sapere e per le cariche precedentemente ricoperte nelle Repubbliche Cispadana e Cisalpina, e per la popolarità di cui godeva; il marchese Francesco Bevilacqua-Ariosti, già senatore (sindaco) di Bologna; i conti Carlo Pepoli, Cesare Bianchetti ed Alessandro Agucchi, tutti già pieni di benemerenze civiche e nazionali, per la loro ferma fede patriottica; il prof. Francesco Orioli che godeva molto ascendente sulla gioventù universitaria e simpatia nella cittadinanza per le sue esperienze fisiche e scoperte; e gli avvocati Antonio Silvani ed Antonio Zanolini, distinti professionisti, e già benemeriti per molteplici servigi resi alla causa pubblica.
Cessazione di fatto e di diritto del dominio temporale del Papa | Il giorno 8 febbraio – giorno memorando – il Governo provvisorio dichiarò: “Il Dominio Temporale, che il romano Pontefice esercitava sopra questa Città e Provincia, è cessato di fatto, e per sempre di diritto”. Fu uno degli atti più importanti della Rivoluzione del 1831, nel primo tempo. Era la prima volta che si aveva tanto coraggio. Si potrebbe osservare, come vedremo, che si ebbe la preoccupazione di legiferare, di statuire, più che di pensare all’effettiva sicurezza di questa città e di questa provincia: e che inoltre più che ai decreti si sarebbe dovuto pensare all’armamento, all’arruolamento di volontari, ella estensione del moto non alla sola città, ma a tutti gli Stati insorti per fare di tante cause un’unica causa. Si potrebbe osservare anche che un’infima corrente radicale giunse a prendere subito il sopravvento sulla gran maggioranza e imporre il decreto ricordato, che dovette suonare come una cosa nuova ed inaspettata, se non a molti, a parecchi certo. Ma tutte le osservazioni non avranno più alcuna ragione d’essere, quando si penserà che con quella dichiarazione si precorrevano i tempi e si peccava, nello stesso momento, di quelle ingenuità che furono tutte proprie di quegli uomini, parte e autori degli avvenimenti in corso.
Giovanni Maioli
Testo tratto da “Il Comune di Bologna” (gennaio 1931). Trascrizione a cura di Lorena Barchetti, aprile 2021.