Schede
Nel lungo articolo, suddiviso in cinque uscite, che il bolognese Savino Savini dedica al Cimitero monumentale di Bologna sulla rivista “Il mondo illustrato” di Torino (siamo nel 1847), è riportata la definizione che della Certosa dà F. de Lammenais nell’Esquisse d’une philosophie di qualche anno prima (1840), quella di “museo di tombe”. Ora, al di là dell’accezione che di questa definizione ne desse lo scrittore, resta fermo che la visione del nostro cimitero come vero museo a cielo aperto fosse già chiara nell’Ottocento, così come, con più moderna accezione, è evidente a noi oggi, che lo consideriamo un importante luogo della conservazione di testimonianze materiali ed immateriali della nostra storia.
Del resto, quando i due autori scrivono si è già chiusa la parentesi napoleonica e concluso quel processo di trasferimento nel cimitero bolognese di lapidi, memorie e monumenti sepolcrali antichi provenienti dai luoghi di culto chiusi, a volte per sempre, con la soppressione degli Ordini religiosi e in alcuni casi persino demoliti; monumenti che, a differenza dei dipinti ricoverati in quella che sarebbe divenuta poi la Pinacoteca Nazionale, non avevano trovato riparo altrove, mancando tra l’altro in città un vero e proprio “museo di antichità”. L’inaugurazione del Museo Civico di Palazzo Galvani, dove alcuni di questi monumenti finiranno per transitare, è infatti soltanto del 1881. E di contro non era ancora iniziato il processo inverso, ossia di rientro di parte di quegli stessi monumenti nei luoghi di provenienza o in altre chiese ed edifici cittadini, processo che si sarebbe massicciamente avviato a partire dagli anni ottanta del secolo. Insomma, in quegli anni la Certosa doveva apparire museo, e “museo di antichità” in particolare, ancora più che oggi.
I monumenti, come è noto, furono disposti in vari ambienti, distinti per cronologia; la loro datazione si collocava in prevalenza fra il XIII e il XVIII secolo, con alcuni significativi casi di maggiore antichità. Voglio qui ricordare il sarcofago marmoreo romano della metà del III sec. d.C. – che la tradizione vuole trasportato da Ravenna per volontà del vescovo Teodoro III –, riutilizzato dalla famiglia Orsi tra la seconda metà del XV e gli inizi del XVI secolo e trasferito nel 1904 nel giardino di fianco a Santo Stefano, dove si trova ancora oggi; e ancora il sarcofago dei Santi Zama e Faustiniano, primi vescovi di Bologna (III-IV sec. d.C.), in origine nella Chiesa dei Santi Naborre e Felice e anch’esso oggi in Santo Stefano. Storicamente rilevanti sono anche i quattro medaglioni di pietra raffiguranti i simboli degli Evangelisti Luca e Matteo e i Santi Domenico e Francesco (o Bernardino) in origine collocati, insieme ad una delle quattro leggendarie croci del vescovo Ambrogio, all’interno della Cappella degli Apostoli ed Evangelisti in Piazza di Porta Ravegnana, risalente alla metà del XII secolo e distrutta dai Francesi nel 1798: la croce fu quindi trasferita nella “Sala del 1200” e poi in San Petronio, dove si trova tuttora, mentre i medaglioni sono visibili ancora oggi murati alle pareti della Sala Weber. Un disegno del Rizzi ci ha restituito l’immagine di come doveva presentarsi l’insieme. Ricordo infine la lapide romanica della fine del XII sec. di Gilfredo degli Arnoaldi, crociato in Terrasanta ai tempi di Federico I e Gregorio VIII, proveniente dai Santi Naborre e Felice, è ancora oggi in Certosa, murata – insieme ad una seconda lapide del 1714 – nella parete di levante del corridoio che immette nel Chiostro del 1500.
Nel censimento che F. Rodriguez compie nel 1954, si contano oltre cinquanta monumenti fra quelli che dalla Certosa furono poi trasferiti altrove; la gran parte proveniva da San Francesco e a seguire, nell’ordine, dall’Annunziata, da San Giovanni in Monte, Santa Maria dei Servi, Santo Stefano, San Domenico, o ancora da chiese e conventi oggi scomparsi, come quello dei Santi Gervasio e Protasio. Oltre un centinaio quelli invece rimasti in Certosa, ma l’autore ne elenca solo una quindicina. Su questo secondo gruppo maggiori dettagli li fornisce A. Raule, che nel 1961 elenca puntualmente, suddividendole per collocazione, oltre un centinaio di opere, compresa la lunga lista delle Madonne, affrescate o scolpite, del chiostro omonimo, per un approfondimento sulle quali si veda il più recente contributo di O. Tassinari Clò. Si tratta per la maggior parte di lapidi di esclusivo valore documentale, che poco o nulla ci dicono della loro originaria provenienza o della storia dei loro proprietari; non mancano tuttavia alcuni singolari casi degni di nota, per ricostruire le vicende dei quali ci soccorrono più fonti. Menzionata ne “Il mondo illustrato”, nei numeri del 4 e 18 settembre (ma la fonte è quasi certamente l’“Eletta”), è la lapide di Rainaldo dei Duglioli, oggi murata nella facciata della Chiesa di San Girolamo ma già in San Paolo in Monte; ricavata da un marmo sepolcrale antico, ritrovato nel 1571 nel cimitero antico degli Ebrei dalle monache del vicino conventodi San Pietro Martire – oggi scomparso –, la lapide conteneva da una parte “la narrazione della vita di un certo rabbino da Rieti per nome Gioabbo”, dall’altra “alcuni versetti in lingua ebraica”. Venduta a un certo Albizio dei Duglioli, che volse la prima parte del monumento alla memoria del padre e lasciò intatta la seconda, la lapide fu successivamente segata in due nel senso della larghezza, e una parte di essa è finita prima al Museo Civico, poi al Museo Civico Medievale dove si trova tuttora.
Non di sole lapidi è tuttavia composto il catalogo dei monumenti antichi rimasti in Certosa. Il busto di Maria Barberini Duglioli (m. 1621), nipote di Papa Urbano VIII, è forse “la più bella testa in marmo che si trova in Certosa”, sostiene Raule, e in effetti fu oggetto di ammirazione da parte di molti visitatori ottocenteschi del nostro cimitero. Fu trasferito in Certosa da San Paolo in Monte, forse dopo l’acquisto e l’abbattimento di parte della chiesa ad opera di Antonio Aldini nel 1811. Studi recenti vogliono tuttavia dimostrare che il busto non è in realtà l’originale opera del carrarese allievo di Gian Lorenzo Bernini, Gaetano Finelli, cui è stato sempre attribuito, ma una copia antica.
Della tomba del senatore Cesare Bianchetti (1584- 1655) rimangono oggi solo una lapide e il busto, peraltro separati in due distinte sale fra quelle annesse al Chiostro del 1500; un disegno del Rizzi ne ricostruisce l’insieme, cui peraltro è da riferire anche una seconda lapide datata 1709 della Congregazione di San Gabriele, murata oggi alla parete ovest del corridoio tra il Chiostro stesso e la chiesa. Sia nel Rizzi che nel testo della prima lapide si parla comunque solo della “protome Caesaris Bianchetti senatoris” e non della tomba vera e propria; e nella Vita del venerabile Servo di Dio Cesare Bianchetti di Carlo Antonio del Frate (1716) si racconta in effetti che il corpo fu sepolto nella Chiesa del Corpus Domini e che un solenne funerale pubblico gli fu tributato, un mese circa dopo la sua morte, nella Chiesa di San Gabriele Arcangelo, un tempo situata nell’attuale via de’ Giudei ed oggi scomparsa. Si legge ancora nella Vita che durante questo secondo funerale, “In una parte, dirimpetto alla Macchina [ossia al grandioso catafalco funebre] stava collocato il ritratto di Cesare, da maestra mano vivamente espresso”. Che si tratti di questo stesso finito in Certosa, che sappiamo provenire da San Gabriele Arcangelo, non è ipotesi non dimostrabile ma non priva di suggestione.
Tra i monumenti antichi della Certosa un ruolo importante rivestono anche quelli che sono poi ritornati nei loro luoghi di origine o ne sono comunque emigrati; grazie alla documentazione e alle fonti sul cimitero è infatti possibile ricostruire le manomissioni e le distruzioni che hanno subito nel corso dei decenni, e d’altro canto la loro presenza in Certosa – e non solo nel caso delle tombe gentilizie cinquecentesche reimpiegate per sepolture più recenti – finì per influire sulle tendenze architettoniche delle sepolture coeve, dando avvio già dagli anni venti dell’Ottocento ad un gusto neorinascimentale che ebbe più tardi esiti e sviluppi autonomi. Un caso paradigmatico è il monumento sepolcrale di Rolandino de’ Romanzi (m. 1284), eretto nel cimitero francescano qualche mese dopo la sua morte, e trasportato in Certosa dopo la parziale distruzione ad opera dei Francesi nel 1803. Il disegno del Rizzi si data dunque subito dopo il suo arrivo al cimitero, e perciò l’immagine riprodotta nel numero del 28 agosto de “Il mondo illustrato” non può riflettere lo stato del monumento a quella data ma basarsi su fonti antecedenti. A confermarlo è una fotografia di Pietro Poppi (1833-1914), successiva al disegno del Rizzi ma comunque anteriore agli ultimi “restauri” e al ritorno del monumento in San Francesco ad opera di Rubbiani (estate del 1888): l’immagine lo mostra nella “sistemazione” che gli era stata data in Certosa, probabilmente dallo stesso Rubbiani l’anno precedente, con l’aggiunta di parti non originarie.
Più curioso e complesso il caso di Francesco de’ Marchi, architetto militare bolognese morto all’incirca nel 1597. Benché in vita fosse celebre per aver girato il mondo al servizio di principi, papi e signori, il luogo di sepoltura rimase ignoto e ogni onore gli fu tributato soltanto due secoli dopo la morte: un’iscrizione ed un ritratto in bassorilievo di terracotta voluti dall’ultimo erede della famiglia, il sacerdote Francesco Calzoni, furono collocati in San Francesco e poi trasportati in Certosa. La lapide, tornata in chiesa nel 1915 e murata al quarto pilastro della navata settentrionale, è andata distrutta nel 1948. Un cenotafio fu infine posto in Certosa, sotto il portico del Chiostro del 1500: ne rimane un’immagine nel numero del 4 settembre de “Il mondo illustrato”, la cui fonte è comunque nuovamente l’“Eletta”. Un “museo del Rinascimento” fu, si diceva, il nostro cimitero, al punto che sepolture di inizio Ottocento come quella di Giuseppe Fantuzzi (1806), di Giacomo Beccadelli Grimaldi (1817) e di Francesco Tinti (1821), tutte nel Chiostro III, o di Olimpia Spada (post 1820, Sala Ellittica), trovano la loro ispirazione architettonica proprio nelle tombe rinascimentali che in quegli anni furono qui trasferite dalle chiese soppresse, e in taluni casi riadattate a nuove sepolture in spazi appositamente predisposti all’interno del Chiostro del 1500.
La tomba Fantuzzi presenta elementi di riscontro – in particolare nelle soluzioni adottate per i motivi decorativi e l’impostazione generale – nel monumento eseguito da Francesco di Simone per Vianesio Albergati seniore (m. 1475 ca.), trasferito da San Francesco per essere riadattato a tomba di Francesco Albergati Capacelli (m. 1804) ed infine tornato nel luogo d’origine, all’interno di una delle cappelle dell’abside; e, a ricordo, una lapide fu posta in Certosa nel 1904. Il reimpiego di una tomba gentilizia più antica per un personaggio come il nostro Albergati, che fu marchese e senatore, oltre che poeta per diletto, appare tra l’altro caso singolare, che si spiega forse con le burrascose vicende che lo videro sperperare l’ingente patrimonio familiare per la sua passione per l’arte drammatica, e coinvolto in un processo per uxoricidio in cui fu difeso dal celebre “avvocato dei poveri” Ignazio Magnani, poi sepolto nel Chiostro III. Il monumento Beccadelli Grimaldi si accosta maggiormente alle sepolture Malvezzi Lupari e Zambeccari, entrambe da San Francesco, scelte per la soluzione della tomba a parete che meglio poteva adattarsi ad un arco. La prima, opera ancora di Francesco di Simone per Pietro Fieschi (m. 1492), fu acquistata per Piriteo Malvezzi Lupari dalle figlie e trasportata in Certosa nel 1806; tornerà in San Francesco (navata sud, quarta arcata) cento anni più tardi. Il monumento di Alessandro Zambeccari (m. 1571), opera di Lazzaro Casario, fu invece trasportato nel nostro cimitero nel 1813 da Diamante Negrini, vedova del celebre “aeronauta” Francesco Zambeccari, per adattarlo a sepolcro dello sposo appena deceduto. Farà ritorno nella chiesa, accanto al precedente, nel 1926. Stessa impostazione “a parete”, e dunque possibile fonte d’ispirazione per le tombe neorinascimentali, ha anche la sepoltura di Giovanni “e genere ducum Bavariae” (m. 1537), fotografata da Pietro Poppi prima del suo rientro in San Petronio nel 1901. Il catalogo dei monumenti antichi della Certosa, di cui si sono voluti fornire solo alcuni spunti di riflessione, potrebbe a lungo proseguire, e del resto ci sono personaggi ancora da scoprire: a chi appartengano ad esempio le pietre tombali con figura di monaco datate fra ’300 e ’400 o il busto di uomo barbuto della fine del Rinascimento, situati nelle aule attigue al Chiostro del 1500, è una storia che deve essere ancora raccontata.
Melissa La Maida
Testo tratto dal catalogo della mostra "Luce sulle tenebre - Tesori preziosi e nascosti dalla Certosa di Bologna", Bologna, 29 maggio - 11 luglio 2010.