Scheda
Di quello che nel giudizio comune dei contemporanei è il paesista maggiore della generazione di mezzo sono riconoscibili poche opere, tutte o quasi tutte giovanili. Fa eccezione la 'stanza paese' che il Campedelli dipinse nel 1858, sessantaseienne, in un suo villino di campagna presso Bologna (Villa San Martino), così arrischiata e complessa da far supporre uno sviluppo precedente ben più arduo di quanto risulti dai pochi lavori radunati fin qui. I due necrologi del Masini e del Monitore di Bologna lo consegnano nella veste di un possidente agiato e oculato e di un pittore che a quella data poteva apparire distante ai più giovani; e nondimeno agli accademici come il Masini sembrava aver disertato, per volere "troppo scrupolosamente attaccarsi alla natura". Il successo era stato locale, ma anche, come per il Basoli, nazionale e internazionale. Alla sua scomparsa, in Bologna si ricordava con compiacimento un articolo comparso su The Art Union nel 1843, che all'artista riconosceva statura europea. Per la maggiore rivista progressista di Inghilterra quella grandiosa 'Valle di Tempe', con la quale Campedelli mostrava di aver combinato "the manners of Claude and G. Poussin with a style entirely his own", sembrò senza paragoni: "in the grandiose style, will not easily, find a rival in modern times" (The Art Union, V, dicembre 1843).
Premerà tanto più la ricostruzione di un percorso che appare per ora prevalentemente indiziario, e nondimeno teso e difficile, se anche recentemente la Varignana, delineandone un primo, meritorio profilo, consegnava l'artista ad un giudizio di grave insufficienza: sollecitato del resto da un album di disegni di condotta così corriva, se non in tutto strumentale, da legittimare gli eccessi di asprezza critica. Sarà però vantaggioso considerare come anche nella grafica Campedelli si differenzi da Fantuzzi e Savini per il rifiuto di qualsiasi piacevolezza illustrativa e meramente documentaria: malgrado la pacatezza e il costante controllo espressivo, l'arcadia acquista con lui una drammaticità interna, da rammentare piuttosto la serietà con cui, tanto più tardi e con più inquieta disposizione di mente, Bertelli si porrà di fronte al paesaggio emiliano. L'avvio più remoto potè avvenire dal Martinelli, secondo quanto accenna il Bellentani; ma un apprendimento più sistematico dovette avere dal Tambroni, che viene esplicitamente indicato come suo maestro. Certo è che l'esordio in Accademia nel '16 e poi i grandi premi del '18 con Edipo e Antigone e del '21 con Numa Pompilio e la Ninfa Egeria gli assegnano un ruolo di protagonista nel paese storico, un genere fin lì poco coltivato dai Bolognesi: che più di ogni altro potè assicurare al Campedelli quel precoce decoro accademico, mancato ai suoi predecessori come, quasi sempre, ai paesisti venuti dopo di lui. E' la riflessione sui modelli illustri e, per la cultura accademica, autorevoli di Poussin e Dughet, in misura minore di Claude Lorrain, a conferire alla sua produzione giovanile un assetto bloccato, solenne; mai però archeologico o meramente letterario, se il rapporto con la natura pare ogni volta verificato sperimentalmente e restituito con sentimento profondo di verità. Se ne coglie l'eco nei molti giudizi ammirativi dei contemporanei, segnatamente in quello più acuto e controllato dello Scarabelli: "la natura è sorpresa nel suo più bello, e l'aria e la luce trascorrono vivissime e misurano infinite distanza".
A questa data Campedelli pare avere dimesso ogni pratica di decoratore (delle 'rovine con terme' sono segnalate, circa 1827, nel giardino di Villa Sorra Frosini a Gaggio nel Modenese), avviato stabilmente a una pittura da cavalletto di grande contegno classicista, ma sempre più inoltrata nel vero. "Nelle sue tele ad olio dipinge egli infatti la natura siccome la vede", spiega, già nel 36, Salvatore Muzzi (Gazzetta di Bologna, 23 maggio 1835). "Bisogna osservar molto e con perseveranza per tradurre in tela tanto del vero", conferma lo stesso critico qualche anno dopo (La Farfalla, 18 novembre 1840), aprendo uno spiraglio sul metodo dell'artista; e spiegando poi come una disposizione così eminentemente riflessiva non incontrasse che il gusto di una èlite: "Ha un bello di elezione da pochi sentito, e perciò da pochi gustato" (ibidem). Più autorevolmente la Biblioteca Italiana, segnalando la sua presenza a Brera nel '33, ne identificava la peculiarità stilistica: "...le sue arie sono brillantissime e pare di respirarle, le sue nubi leggere, in quanto alla luce distingui nei suoi quadri le diverse ore del giorno; ...la gradazione della luce e dell'aria interposta fra gli oggetti li stacca e ne indica le distanze: il suo frondeggiare facile, vero, variato piace, come l'artificio ch'egli adopera per comporre i gruppi de' suoi alberi: ...in una parola il Campedelli è artista nel suo genere che può competere con qualunque altro di fama la più distinta". (Biblioteca Italiana, 1833, lug.-sett.). Nel '41 il Pancaldi segnala una svolta nel percorso di Campedelli, "quel Proteo nell'arte", proprio allora espositore in accademia, "con novello stile vaghissimo", di una Rupe Ferronia al Sasso e di Cascatelle a Tivoli (Il Caffè di Petronio, 27 novemre e 3 dicembre 1841).
D'allora in poi sembrano prevalere effetti di luce e una più esplicita disposizione al pittoresco, con richiamo ai modelli olandesi, del Potter, più che quelli classicisti fin lì prediletti: e sulla strada di un più accentuato naturalismo l'artista risulta stabilmente incamminato, se nelle segnalazioni della stampa prevalgono poi immagini di nessun decoro ideale, come le vedute con buoi o i rigagnoli d'acqua. Sono verosimilmente questi i quadri più imitati, a giudicare dalle copie che a partire dal 1843 compaiono con una certa regolartà alle esposizioni. "Non più seguace di avita scuola", ma "pur sempre venerevole", appare nondimendo nel tardi giudizio di Bellentani. Più seccamente nel Masini si coglie una aperta riserva, dove accenna criticamente all'ultimo svolgimento dell'artista: "quando più volle scrupolosamente attaccarsi alla natura, tanto maggiormente si allontanò da quella spontaneità che costituiva il principal pregio delle prime opere sue". E' verosimile che la 'stanza a paese' da lui dipinta a olio nel '58 con la veduta di Rocca Malatina e della vallata del Panaro, "a grandi alberi, magistralmente dettagliati e variati", "ardito e stupendo lavoro" (Il Monitore di Bologna, 28 settembre 1862), compendiasse nel modo più autorevole un tale ed ostico intreccio di naturalismo e pittoresco romantico, da farne in più punti, anche nelle zone di ricorrente enfasi classicista, un domestico parallelo della scuola di Barbizon: "ardire degno della possenza di lui, che seppe ingombrare il pavimento di sassi reali, e colorirli e confonderli col resto della ingannevole pittura: sicchè a tuo talento sprofondi gli occhi giù per i sconscendimenti, e li alzi sotto la volta del limpidissimo finto cielo".
Renzo Grandi
Testo tratto dal volume "Dall'Accademia al vero – La pittura a Bologna prima e dopo l'Unità d'Italia", Bologna, Grafis, 1983.