Schede
Le due imponenti Piangenti (popolarmente dette Piagnoni o Piangoloni) in terracotta collocate sui grandi pilastri dell’ingresso monumentale del Cimitero della Certosa, realizzato su progetto dell’architetto Ercole Gasparini nel 1802, fin dalla loro messa in opera furono riprodotte in incisioni di ampia diffusione e divennero i simboli del nuovo e moderno cimitero di cui, nel 1801, la colta Bologna si era dotata prima di ogni altra città italiana. E ancora, in anni recentissimi, quando il Comune di Bologna ha scelto, sia attraverso il recupero dei monumenti più degradati, sia attraverso la promozione della conoscenza e degli studi, di rivalutare quello straordinario ed esclusivo museo dell’arte neoclassica felsinea che è il nucleo originario del cimitero, è stata una delle due Piangenti ad essere raffigurata nel logo della nuova istituzione museale.
Queste due statue sono opera del bolognese Giovanni Putti che, con Giacomo De Maria, fu il maggiore scultore nella Bologna di epoca napoleonica e della Restaurazione. Quando, nel 1809, realizzò le due statue, il giovane Putti, artista già affermatosi nella sua città e in altre dell’Emilia e della Romagna, si apprestava a trasferirsi a Milano dove soggiornò fino al 1814 venendo a contatto con una cultura artistica cosmopolita che gli permise di arricchire la sua già brillante preparazione artistica avviata all’Accademia Clementina. Fu infatti nella capitale del Regno d’Italia, dove, in quel tempo, confluivano i maggiori maestri italiani chiamati ad operare in prestigiosi cantieri come la facciata del duomo e il neoerigendo Arco del Sempione (poi detto della Pace), che Putti ottenne le sue più prestigiose commissioni pubbliche. I Piangoloni, tuttavia, presentavano già le principali peculiarità stilistiche che connotano l’intero corpus delle opere puttiane (tra cui i trenta monumenti sepolcrali eseguiti alla Certosa tra il 1815 e il 1830), ed in particolare quella sua personale elaborazione, declinata in chiave neoclassica, della cultura plastica bolognese tardobarocca improntata alla ricchezza materica, alla saldezza e ad un’esuberante teatralità di marca espressionistica. Le due statue, caratterizzate da eccezionale pathos, neoclassiche e neobarocche al contempo, sono quasi figure senza tempo che, attraverso la loro imponente massa, la postura conchiusa e il panneggio ricco e pesante, strategicamente posizionate ad accogliere e quasi ad ammonire chiunque varchi la soglia del camposanto, ci appaiono come allegorie di una realtà di confine tra la vita terrena e l’al di là, simboli del “dramma” perenne ed ineluttabile della morte. Al contempo, attraverso il virtuosismo tecnico e la suggestiva espressività che le connotano, esse rivelano il loro forte legame con quella tradizione plastica felsinea che affonda le sue radici lontano nel tempo, fino a risalire al drammatico e sublime gruppo di Nicolò dell’Arca in Santa Maria della Vita, e che ha nel peculiare neoclassicismo di Giovanni Putti il felice epilogo della sua lunga parabola.
Emanuela Bagattoni, Luglio 2012
Testo tratto da: R. Martorelli (a cura di), La Certosa di Bologna - Un libro aperto sulla storia, catalogo della mostra, Tipografia Moderna, Bologna, 2009.