Schede
I due altipiani carsici contigui di Doberdò e di Comeno sui quali si combattè durante la Grande Guerra dai primi giorni del conflitto fino alla ritirata a seguito della battaglia di Caporetto sono caratterizzati dal fenomeno geologico delle doline. Il nome deriva dalla parola dol che in lingua slovena significa valle. Una dolina corrisponde perciò a una piccola valle, una conca chiusa di aspetto imbutiforme le cui dimensioni possono variare di molto fra loro e con un microclima del tutto particolare che porta la temperatura ad abbassarsi man mano che si scende verso il fondo; a volte due versanti della stessa dolina sono differenti tra loro.
La poca o addirittura nulla pendenza dei due altipiani favorisce questo fenomeno geologico: sono centinaia quindi le doline di cui sono costellati. Queste doline assunsero un ruolo importantissimo durante i mesi del conflitto, in particolar modo dopo il superamento del Vallone carsico da parte delle truppe italiane a seguito della sesta battaglia dell'Isonzo che portò alla caduta di gran parte dell'altopiano di Doberdò. Lo spalto orientale del Vallone appariva ai loro occhi ancora quasi incontaminato, come era apparso il gradone carsico ai primi soldati italiani che vi si erano avvicinati, provenienti dai confini, nell'anno precedente: la bassa e intricata vegetazione carsica invece celava opere difensive già approntate. Dietro a una prima linea avanzata, chiamata “linea A”, che correva all’incirca proprio sui rilievi a picco sul solco del vallone, esisteva appena cento metri più a est una seconda linea chiamata dagli austriaci la Hundertmeterlinie (la linea dei cento metri), a supporto della prima linea. I nuovi campi di battaglia si chiamavano Veliki Hrib, Pecinka, Pecina, Volkovnjak, Nova Vas, Nad Bregom, Dosso Fajti. Nell’arco di tre offensive il sistema difensivo avversario si rivelò un camaleonte capace di adattarsi al mondo di roccia dell’altipiano, assumendo le vesti più diverse. Linee di muretti o solchi appena abbozzati, conquistati dopo sanguinose battaglie, erano spesso solo il preludio di fortificazioni campali in piena regola, mentre le conche delle doline svolgevano il compito sia di rivellini avanzati nella terra di nessuno sia di rifugio per i presidi alle spalle della linea di combattimento. Paesi fantasma, ridotti a distese di macerie, si rianimavano all’improvviso con i loro nidi di mitragliatrici come istrici impazziti. Una ben significativa descrizione di questo terreno viene fornita dalla Relazione Ufficiale italiana:
"Il Carso, ad oriente del Vallone, accentua le proprie caratteristiche: panorama monotono e quasi privo di punti di riferimento; suolo brullo, pietroso, arido, soltanto qua e là coperto da rade macchie boscose; superficie mossa da numerosissime doline e rotta da profonde buche, intersecate da una fittissima rete di muretti a secco, costruiti per disciplinare le acque di dilavamento e creare piccoli appezzamenti coltivabili generalmente nel fondo delle doline. In quei muretti gli austriaci trovavano già pronti gli elementi per organizzare rapidamente robuste linee di trinceramenti e per costruire una compartimentazione che, mentre permetteva alla difensiva la più tenace resistenza, spezzava la compagine delle formazioni di attacco, scrollava la coesione dei reparti, deviava, rallentava, imbrigliava l’impulso dell’assalto. Le doline e le grotte erano altrettanti preziosi ricoveri per le riserve, a immediata vicinanza delle prime linee". Anche un organo ufficiale quale la Relazione Ufficiale italiana non poteva che riconoscere la perfida natura del terreno del campo di battaglia e i grandi sforzi richiesti ai disgraziati fanti italiani. Si trattava di un vero e proprio dedalo inestricabile, che spesso fece perdere l’orientamento a soldati e ufficiali. Venne realizzata una segnaletica militare fatta di cartelli e incisioni sui massi per indicare a portaordini, gruppi di soldati e addirittura interi reparti la direzione da prendere. Sbagliare camminamento, entrare nella dolina sbagliata poteva costare molto caro. Sono estremamente significativi due episodi riportati dal reduce del Carso Arturo Stanghellini, ufficiale della brigata Pinerolo, nel suo libro Introduzione alla vita mediocre. Racconta Stanghellini:
"Un bel giorno in un prato Sua Altezza Reale il Duca d’Aosta ci tratta nientemeno che da valorosi perché avevamo brillantemente pugnato sotto il Pecinka! Valorosi, non discuto, ma anche ignoranti; non permetto che se ne discuta. Il Pecinka! (Scusa un po’, come hai detto? Il Pe… Il Pe… Il Pecinka. Ah, si chiamava il Pecinka? Lo sapevi tu? Neanche io. Bisogna scriverlo a casa.) Quelli del 14° impararono che erano stati sotto il Veliki Hribak. Ma avanti ad imparare a scriverlo!" Ancora più amara la considerazione fatta da Stanghellini a proposito dell’attacco del 16 agosto 1916, quando si vide recapitare da un portaordini un biglietto proveniente da un suo collega che chiedeva con ansia: "«Mi sai dire dov’è Lokvica? Alle 11.00 dovrei averla occupata e non so nemmeno dov’è!» Allora mi piegai verso l’uomo che aspettava accoccolato: «Ditegli che quel paese non l’ho mai, dico mai, sentito rammentare. Hai capito? Mai sentito rammentare!» […] Buia era la notte, buio era il Vallone, buia la nostra ignoranza. Ci portavano per mano come bambini per una strada grigia, in un mondo vergine. Ogni passo era nell’ignoto, verso l’ignoto". Fu su questo terreno che si consumarono ben tre offensive, le famose “spallate”, atte a scardinare il precario, agli occhi di Cadorna, schieramento austriaco. Spallate che avrebbero definitivamente abbattuto la pericolante porta per Trieste, dando una svolta decisiva alla guerra italiana. Amara illusione. Se mai poteva, questo “nuovo” Carso era ancora più terribile di quello ormai alle spalle dei soldati italiani: le caratteristiche naturali e ambientali del Carso di Doberdò si acuivano ed estremizzavano in quello di Comeno. Gli italiani si trovarono quindi di fronte a linee austriache già organizzate e preparate da diverso tempo, fornite di ricoveri in caverna e di approvvigionamenti d'acqua e di energia elettrica. Nulla di preparato c'era invece per i soldati del Regio Esercito che, quindi, iniziarono a popolare questi avvallamenti del terreno nella speranza effimera che potessero fornire protezione e sicurezza. Già nel 1915, quando ad usare le doline erano invece gli austroungarici che se le trovavano alle spalle della linea difensiva sul ciglione carsico, le doline avevano già dimostrato la loro utilità e vennero puntualmente riutilizzate dagli italiani non appena superate le linee di difesa austriache attaccate per oltre un anno di guerra. Sul fondo di queste doline sorsero nuclei di baracche di svariata grandezza, a seconda dello spazio disponibile, cimiteri di guerra, cisterne, depositi, rifugi, posti di medicazione. Sulle pareti più o meno sdrucciolevoli degli imbuti pietrosi vennero scavate caverne, postazioni. La guerra di posizione che costringeva all’immobilità migliaia di soldati, 24 ore al giorno per interi mesi negli stessi posti, anfratti e trincee, comportava un consumo di materiali enorme. Le azioni più semplici dell’esistenza umana, i bisogni corporali di questa massa enorme di uomini, venivano compiuti ed espletati in pochi metri quadrati: vita, sopravvivenza e morte convivevano. Ogni dolina aveva un nome per distinguerla da un’altra e per facilitare l’orientamento dei reparti e dei portaordini; ad esempio: dolina bombarde o dolina bombardieri o perforatrice, ispirandosi per il nome ai reparti che vi prendevano posto, dolina rancio, per la presenza delle cucine, dolina Novara o Pallanza per le brigate che vi avevano trovato rifugio, dolina albero o alberello, per una caratteristica fisica della dolina, o addirittura dolina cimitero, per la presenza di una serie di sepolture; molte doline venivano intitolate a personaggi famosi o a ufficiali combattenti, come la dolina D’Annunzio, Dante o Petrarca, o la dolina Trombi, intitolata al generale Ferruccio Trombi comandante della brigata Livorno deceduto a Oslavia nel 1915, o venivano intitolate a località italiane, forse con un po’ di nostalgia, come la dolina Frascati, o la dolina Aniene, altre invece venivano dedicate a una ragazza lontana, come la dolina Gabriella, ma spesso il nome poteva essere anche casuale, dettato dalla routine di guerra, come la dolina chivalà; eloquente il nome della dolina mosconi, dovuto probabilmente dalla presenza dei fastidiosi insetti, attratti spesso dai cadaveri in decomposizione insepolti. Ovviamente altrettanto facevano gli austriaci battezzando queste piccole vallette nelle maniere più fantasiosa. Racconta il reduce della brigata Ferrara Mario Puccini: "Le doline nemiche cambiano nome, una per una. Noi non sappiamo come gli austriaci le chiamassero e, del resto, è ben giusto che il conquistatore dia la sua impronta ai luoghi su cui mette piede". Rimane comunque una traccia indelebile del “mondo” delle doline nella ricca memorialistica di guerra. Oggi questi muti imbuti hanno perso la propria importanza, e solo pochi profondi conoscitori del terreno o residenti locali ricordano i loro nomi. Un’epopea significativa ma di breve durata, che oggi rivive solo nelle mappe d’epoca.
Di Giacomo Bollini