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Circolo ippico Siepelunga

1939 - 1944

Di rilevanza storica

Schede

Sono ben cinque i progetti che Bottoni e Pucci elaborano prima di giungere alla realizzazione di quest'opera, che avrà peraltro una vita brevissima.
Scambiata per un obiettivo militare, sarà infatti distrutta negli ultimi mesi del 1944.
Le vicende dei progetti sono riassunte in un documento di cinque cartelle dattiloscritte, senza titolo e non firmato, datato 1.10.1939 (in APB, Documenti). La versione manoscritta è stilata in una calligrafia diversa da quella di Bottoni e di Pucci, ma è molto probabile che sia stata da loro ispirata e comunque approvata (d'ora in poi indicheremo il dattiloscritto con: [Circolo ippico di Bologna. Breve storia dei progetti], 1.10.1939; abbrev.: Circolo, 1939).
Grazie a questo documento e all'illustrazione delle diverse soluzioni apparsa su «Rassegna di Architettura» dell'aprile 1940, è stato possibile orientarsi nella documentazione iconografica e ricostruire il tortuoso iter progettuale.
La diversa localizzazione distingue i cinque progetti in due gruppi: i primi due puntano a «utilizzare come sede del nuovo Circolo la casa forestale già padiglione della Mostra dell'Agricoltura» (Circolo, 1939, p. 1) situata nei giardini pubblici Regina Margherita; gli altri sono riferiti a una zona poco lontana, anch'essa ai piedi della collina: un'area prospiciente la via Siepelunga dove la Società bolognese di equitazione, promotrice dell'opera, aveva già la sua sede, ma con edifici del tutto insufficienti alla vita di un circolo aperto anche ai giovani della Gioventù italiana del littorio.
Le prime due soluzioni avevano dunque a che fare con il recupero di un «vecchio edificio in legno, fabbricato nel mal gusto d'una provvisoria esposizione» (Giolli, 1943, p. 4).
In entrambe era infatti previsto il riadattamento di questa costruzione a sede del circolo vero e proprio, mentre il maneggio coperto e le stalle erano collocate in edifici staccati concepiti ex novo e collegati fra loro da gallerie di assaggio.
«A questo progetto, che parve dovesse sacrificare parecchi alberi, ne seguì un altro con una disposizione diversa dei corpi stalle e maneggio, atto a conservare nella sua integrità tutta la flora esistente» (ibidem).
Il secondo progetto è dunque una variante del primo, e in entrambi i casi l'organismo del maneggio assume la forma di un unico spazio di 18x25 metri, coperto da una volta parabolica.
Costretti in queste prime elaborazioni a lavorare su un contesto che andava invece preservato a verde pubblico e per di più obbligati a recuperare una testimonianza tipica della mediocrità eclettica, i progettisti scelgono la strada del contrasto con le preesistenze ricorrendo a una forma usata dagli ingegneri moderni per gli hangar e le fabbriche (e a cui lo stesso Bottoni aveva già fatto ricorso, con Griffini e Manfredi, nel progetto per il macello di Palermo del 1929).
In questa scelta di rottura verso l' «atmosfera morta, morta in un timido pittoresco, di quei giardini pubblici», Raffaello Giolli vede un atto progettuale improntato a una moralità inflessibile (Giolli, 1943, p. 4).
In ogni caso, quando per intervento della podesteria, «non a torto» preoccupata della diminuzione e della compromissione di un importante parco urbano, viene prospettata una diversa soluzione localizzatìva, Bottoni e Pucci si portano appresso l'immagine del maneggio a volta parabolica.
Non si tratta però di un mero archetipo formale, né tantomeno di una concessione tardiva a una moda.
L'insistenza su questa forma deriva da un'attenta valutazione delle potenzialità che essa offre per risolvere una questione specifica e ben compresa, anche in questo caso, da Giolli: «Un maneggio coperto è una specie di paradosso: almeno, così l'ha subito sentito l'architetto d'oggi, scoprendone la crisi, il dissidio.
Se la casa ha mura che difendono ma che non devono sotterrare, meno che mai il maneggio avrà da essere un mausoleo.
Aria, luce, lietezza, non soltanto per il passo franco dei galoppatoi ma proprio per la calma dei cavalli in gara» (ivi, pp. 5-6).
Ciò che accomuna i cinque progetti è dunque l'idea di un interno. Così quando, dopo un attento esame delle alternative possibili, la scelta cade sull'area di via Siepelunga, la maggiore superficie a disposizione consente di dare al maneggio proporzioni più aderenti a quell'idea: la pianta definitiva misurerà infatti 51,50 x 32 metri, avrà cioè dimensioni più che doppie rispetto a quelle iniziali, con ovvi cambiamenti nella stessa concezione architettonica.
Il terzo progetto - il primo della serie per via Siepelunga - prevede ancora tre corpi distinti e la loro connessione mediante passaggi coperti.
Il maneggio, le stalle e il circolo sono collocati parallelamente alle curve di livello e alla via, con la mole del maneggio posta a fare da sfondo e il circolo organizzato in continuità con l'ingresso.
La soluzione avrebbe inoltre consentito il recupero parziale di due corpi di fabbrica preesistenti.
Con il quarto progetto muta radicalmente la dispozione dei tre edifìci.
Il maneggio è ruotato di 90 gradi e posto a diretto contatto con i locali del circolo, raccolti in un corpo allungato su due piani. Il passo avanti è notevole.
Si ottiene infatti «di non sbarrare il paesaggio e non tagliare l'accesso al terreno retrostante al maneggio stesso» (Circolo, 1939, p. 3).
Ulteriori ritocchi si rendono però necessari per ridurre «l'eccessiva distribuzione in superficie dei locali e servizi [...]» (ibidem).
Si giunge così al progetto esecutivo che, oltre a recuperare le due fabbriche esistenti (una delle quali adibita a ufficio e ad abitazione del maestro, l'altra a stalla), organizza con notevole cura il sistema dei percorsi. Felice appare anche la sistemazione degli spazi aperti.
Sul margine ovest dell'area è ricavato un percorso anulare per cavalcate all'aperto che ingloba anche il rettangolo del maneggio coperto, mentre tra questo e quello coperto è interposto un grande piazzale belvedere accessibile attraverso un'ampia scalinata.
La realizzazione del complesso richiede sia considerevoli opere di sbancamento e riporto di terra sia la formazione di scarpate e di muri di sostegno, che alla fine favoriscono e concludono armonicamente l'inserimento dell'architettura nel paesaggio.
Il sopraggiungere di difficoltà nel inanziamento (a cui concorrono oltre alla Società bolognese di equitazione vari enti cittadini) impone un ridimensionamento delle opere nel corso stesso dell'esecuzione. Si rende così necessario studiare una soluzione, definita «provvisoria», per il lungo corpo del circolo e dei servizi innestato sul maneggio.
Viene sacrificato il porticato sorretto da pilotis previsto su tutto il fronte, mentre la profondità dell'intero corpo è ridotta di circa sette metri. Ciò non impedisce alla costruzione realizzata di apparire all'esterno compiutamente risolta. All'interno i locali di ritrovo del circolo vengono collocati in una galleria del primo piano ricavata a ridosso della tribuna. Anche qui la sistemazione di fortuna non manca di un suo fascino, dato soprattutto dal colpo d'occhio prospettico che ingloba un segmento degli archi parabolici.
Nel contempo il piano inferiore può ospitare sotto la tribuna i servizi necessari.
Possiamo dunque - sia pure sulla base della sola documentazione iconografica - porre a confronto la soluzione ritenuta ottimale dai progettisti e quella a cui li hanno costretti le sopravvenute difficoltà finanziarie.
La prima soluzione punta sul contrappunto tra due forme assolute e sull'equilibrarsi dello slancio della grande volta parabolica con il protendersi orizzontale del corpo basso, alleggerito dai pilotis; la seconda smorza i contrasti volumetrici a favore di più serrati raccordi nelle scansioni delle due fasce vetrate, aperte in entrambi i volumi.
In questo secondo caso, a differenziare i due corpi intervengono più decisamente le valenze costruttive del colore (tema questo su cui Bottoni ha alle spalle un decennio di sperimentazioni e riflessioni teoriche).
Il contrasto fra il verde scuro e il nero della grande copertura del maneggio e il bianco della fabbrica aggettante rende squillante il contrappunto tra i volumi (cfr. Gresleri, 1981, p. 45), mentre i colori ricercano nel contempo stacchi e mimetizzazioni con la natura circostante, chiamandola a una stretta interazione con l'architettura.
L'incunearsi del maneggio coperto nella collina favorisce inoltre la vista degli alberi dall'interno del grande invaso parabolico.
Il sommarsi a ciò di una eccezionale luminosità naturale, garantita dalla grande vetrata continua aperta sul fianco sud-ovest (così da evitare anche l'abbagliamento), ottiene un «particolare accento di vivezza» (come si afferma nella scheda illustrativa allegata all'articolo di Giolli più volte citato e firmata S.P.).
Stando a questa testimonianza, Bottoni e Pucci avrebbero vinto la sfida di raccogliere in un interno uno sport, come quello ippico, che «al chiuso è un assurdo»: «La gaiezza che qui risulta nell'ambiente, con l'aperta vista del paesaggio attraverso le finestre della tribuna, riconduce le esercitazioni alle stesse condizioni di quelle all'aperto» (S.P., [scheda all. a Giolli, cit.], 1943, p. 10).
L'invaso parabolico è poi utilizzato anche per garantire un'efficace illuminazione artificiale: una serie di apparecchi appositamente studiati, collocati nel fuoco della parabola, proiettano una luce intensa verso la volta, che la restituisce diffondendola uniformemente sull'intero ambiente.
Dalla nota tecnica, pubblicata sempre in appendice all'articolo di Giolli, apprendiamo infine: «Il calcolo di verifica della struttura studiata in progetto è dovuto al dottor Guido Sangiorgi. La struttura è composta da 11 archi ad interasse di ml 4,30 e luce netta ml 32,60, sui quali si appoggia una volta di piccolo spessore in laterizio e calcestruzzo ad armatura incrociata» (ivi, p. 10).
E questa l'opera strutturalmente più ardita concepita da Bottoni e Pucci, e la collaborazione al solo «calcolo di verifica» da parte di uno specialista dimostra ulteriormente come nel procedimento progettuale seguito dai due professionisti la concezione delle forme non sia mai disgiunta dalla ricerca di una stretta coerenza con le ragioni statìco-costruttive e da una attenta valutazione degli aspetti tecnologici.

Archivio Piero Bottoni