Schede
La Via Saffi, l’antico Borgo Maggiore, il più grande aggiunto nel sec XVII fuori le mura, corre dalla Stazione ferroviaria, a nord, alla Chiesa dell’Ospedale, a sud, al lavatoio pubblico sul canale. E l’Osservanza è il nome che si dà a quella parte della strada a sud dell’incrocio con via Battisti: qui si è svolta la mia vita fino a 16 anni, quando ci spostammo in una casa nuova in via Italo Luminasi.
Il Porticone, visibilmente interrotto, era ed è ancora l’elemento più antico; un tempo, dalla sua parte era tutta campagna, i campi dei Caprara, che avevano anche un grande stallatico e che una siepe di cappelletti separava dal vialetto, al giaradén, dove noi bambini correvamo a giocare appena possibile. Sull’altro lato, a ridosso del canale coperto, c’era al Palazon, un alto palazzo della Congregazione dell’Ospedale con un grande portone, e lì abitavo, all’ultimo piano aperto dietro sul parco della Villa Lenzi. Lassù c’era anche la famiglia Plata con la maestra Fede, mia vigilatrice in colonia e poi insegnante di mio figlio, mentre il primo piano era occupato dall’appartamento grandissimo della famiglia Pasini con Vittorio, primo compagno di giochi. A lato del Palazzone, tutte in fila, c’erano, come ora, tante casette basse, piccole proprietà più o meno collegate tra loro, fino alla ‘Corte Galluzzi’ a ferro di cavallo, appena staccata, dopo la casa di Malvina, dal Palazzo Masi, e, oltre questo altre costruzioni più modeste arrivavano fin quasi al canale.
Quando una granata caduta nella tromba delle scale rese inagibile il nostro palazzo, ci trasferimmo proprio presso la famiglia Masi, in due camere al piano terra con le finestre chiuse da inferriate: svanirono così i bei tramonti che ammiravamo prima, ma la guerra non ammetteva rimpianti. Tanta parte di vita si svolgeva sulla strada, dove i bambini giocavano a lungo e dove la sera le donne sedevano, su sedie basse o sullo scalino della porta, a chiacchierare, a tajèr di gabanén, o a sferruzzare o a dèr di pont. Una botteghina, distrutta anch’essa dalla guerra, vendeva di tutto ma soprattutto i ‘bilini’ o la liquirizia; sotto il portico i Calzolari vendevano frutta, verdura, granaglie, e nella piazzetta vicino a Gonella, meccanico di biciclette mai disoccupato, c’era la latteria di Vittoria e la drogheria di Elda; ma... l’attrazione maggiore per noi bambini erano i magazzini dal pularoli, le pollivendole, d’la Virgenia, o Gibela, più vicino a noi, d’la Bindina laggiù vicino alla chiesa. Ci fermavamo incantati ad osservare le grandi stie, fatte di giunchi intrecciati, piene di galline o di piccioni, di conigli e di anatre, oche e tacchini, di galline faraone, tutti che starnazzavano, si beccavano, o, come nel caso dei conigli, si acquattavano timorosi. Noi aspettavamo un momento di distrazione dal pularoli per spaventarli e provocare un gren pulèr, e scappavamo poi via veloci pran ciaper dal bravè o dal sgranadlè.
Seguivamo attenti come la Gibela caricava quelle casse su un ‘cariolino’ che tirava faticosamente, ma con decisione, fino alla piazza del mercato, del giovedì o della domenica: lei era proprio “una che sapeva fare i suoi interessi!” diceva la gente, perché comprava il pollame, ma anche uova e formaggi, dai contadini e li rivendeva, contrattando a lungo sul prezzo. Si era tanto ingrandita nel commercio che aveva cercato soci, come la Marcella dal Drago, degli Alboni, che abitavano nel Borgo. Queste donne energiche andavano anche in altri mercati, come a quello di Castel San Pietro, e allora si vedevano partire in bicicletta con gabbie più piccole legate dietro la sella o davanti al manubrio, in equilibrio un po’ precario per la verità. I ‘Bindini’, se ricordo bene, furono i primi a usare un furgoncino, anche se un po’ malandato, ma si vedevano anche dei barroccini (i bruzén), tirati da un cavallo tozzo e lento, ben diverso da quello snello e vivace che portava i calessi: sul cassone pieno di capponaie, si trasportavano anche sacchi di granaglie, fasci di verdure fresche, cesti di uova, e ancora pacchi e pacchetti da recapitare a qualcuno, quasi per un servizio di posta celere! I polli! Si sapeva bene, noi bambini di paese, com’erano fatti, non come quelli di città che li vedevano già spiumati, tutti nudi, sui banchi dei loro negozi! E che potevano mai sapere dei loro ‘coccodè o chicchirichì o pio pio o qua qua qua’, senza parlare poi del verso rude del tacchino o del grugnire del maiale e del chiocciare di una mamma gallina che si portava dietro la nidiata...
Io avevo poi anche la fortuna di avere degli zii che in campagna nella grande aia crescevano proprio tutti gli animali da cortile, oltre ad avere mucche e cavalli. D’altra parte anche in paese tutte le famiglie che avevano un cortiletto vi tenevano qualche gallina per le uova fresche, o il cappone di Natale, o anitre e tacchini dalle uova più grosse, buone per fare delle belle sfoglie. Ma che buone le ovine piccole e scure di ‘faraona’, che la mia nonna paterna Elisa mi teneva in serbo! Noi paesani in genere compravamo dai contadini, che vendevano gli animali vivi, appena presi da pollai, cortili o conigliere: legati per le zampe loro si dibattevano come quelli che l’Agnese dei ‘Promessi Sposi’ consegnò a Renzo, e, i galletti, che come quelli si facevano la guerra l’un l’altro, tentavano di liberarsi, beccandoci la mano se la raggiungevano. Io ne avevo un po’ paura e stavo alla larga, ma il peggio accadeva quando gli si doveva tirare il collo: una volta alla mamma scappò una gallina, io strillavo e non l’aiutavo di sicuro, così mio padre dovette assumersi per sempre quel compito!! Un’operazione speciale era quella di spennarli, il che si doveva fare finché erano caldi e con garbo per non strappare la pelle, bella liscia e di un giallo-rosa tenero tenero, poverini! A volte succedeva che, quasi per una misteriosa vendetta, i loro pidocchi, i pulen, ultimi a morire, infastidivano le donne che, pure se si erano coperte la testa con un fazzoletto, si strofinavano a non finire: per questo qualcuno sbollentava i polli prima di iniziare quel lavoro.
...Ma nell’Osservanza si svolgevano anche altre attività: per esempio, la Nina ed Scioni partiva di buon mattino verso la campagna con grosse sporte appese al manubrio della bicicletta, fornita di quasi tutto quanto potesse servire per la casa, aghi cotoni elastici bottoni, ma anche fiammiferi e candele, o altro; il padre di Tristano, Pietro con sua moglie Maria, faceva cordami nel viale, attorcigliando la canapa in misure diverse e stendendole tra gli alberi; la Renata d’la Picita commerciava i luven, e le caldarroste d’inverno, forse anche la zucca e le cipolle cotte al forno; al funtanir preparava i suoi tubi tra la casa di Malvina e un magazzino di Masi, dove aveva tutti i suoi arnesi di lavoro, e batteva forte sui ferri. Spesso nelle corti ma anche sulla strada o nel viale si vedeva chi ‘rifaceva i materassi’, di lana buona o di crine vegetale, che si erano messi a prendere il sole per giorni: la preparazione era laboriosa, perché la lana veniva cardata, o semplicemente aperta a mano e battuta a lungo con una canna se non era stata anche lavata, poi su cavalletti di legno si appoggiavano delle aste lunghe alle quali si fissava la tela a righe, tipica, preparata nella forma giusta, che si riempiva bene bene in tutti gli angoli, poi si ricuciva nella fessura centrale e per tutto il perimetro con aghi grandi e robusti, dalla cruna larga per un refe robusto. C’era sì la materassaia di mestiere, ma molte donne, e anche mia madre, facevano da sé. Ricordo bene che mi piaceva molto osservare la precisione e l’abilità delle mani veloci di mamma Clara: avevo provato anch’io ad usare quegli aghi così grandi, ma spesso mi ero punta le dita e la ‘maestra’ era molto severa, così avevo finito per aiutare in altro modo. C’era ancora chi lavava e stirava per gli altri, chi lavorava di sartoria o a maglia: insomma le donne ‘non stavano mai con le mani in mano’!!
Francesca Mirri
Testo tratto da "Brodo di serpe - Miscellanea di cose medicinesi", Associazione Pro Loco Medicina, n. 10, dicembre 2012.