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Una storia di persecuzione ed esilio

1831

Schede

"Triste il Natale del 1833 in casa Gabussi. Da più mesi la sventura l'aveva visitata; e in un giorno come quello, sacro all'intimo raccoglimento famigliare la sventura si fa sentire con una punta più dolorosa. Una donna sui quaranta, ma ancora giovanilmente ben portante, con attorno una nidiata di figli, siede preoccupata e silenziosa a capo del desco frettolosamente imbandito. Tranne la primogenita, una ragazza diciassettenne, gli altri cinque sono ancora in piccola età. Fanno una scala dai tre anni della bambina nata ultima va ai quattordici del maschietto più grandicello. Un'aria di mestizia da tempo diffusa, e divenuta ormai abituale, ne' lineamenti materni si riflette su quei volti infantili che di rado, e come a stento, illumina il riso.

Siamo a Bologna, in via Vitali, ora Guido Reni, nella casa su cui al presente è murata la lapida a ricordo dell'insigne chimico professor Ciamician. Tutt'attorno nella vecchia città le famiglie celebrano nell'intimità del focolare domestico la solennità Natalizia. Ma in quella casa il capo della famiglia, l'avvocato Giuseppe Gabussi non è presente. Da quasi dieci mesi l'ospita il carcere, detenutovi per causa politica. Patriota della prima ora, fin dal 1815 aveva manifestato i suoi sentimenti. L'ingresso del Murat in Bologna e il grido di indipendenza che l'accompagnava, avevano avuto la sua adesione, fervida di giovanile entusiasmo. E l'esito infausto di quell'impresa e la restaurazione del governo pontificio erano stati per lui, come generalmente pei giovani cresciuti durante gli anni del regno italico, eventi spiacevoli. Avversario irriducibile di quella novità anacronistica aveva cooperato largamente alla propaganda delle idee e i principi liberali. Lavorava per la rivoluzione. E allorché questa nel 1831 scoppiò, egli non pure vi aderì fervido e pronto, ma vi prese parte notevole. Poi, l'anno seguente, a proposito delle effimere ed irrisorie riforme governative, con opuscoli anonimi le aveva censurate e combattute. Per questa sua costante condotta di avversione e opposizione all'ordine costituito, benché presidiate d'intelligente cautela, era caduto in sospetto. Particolarmente era ritenuto uno dei principali autori della diffusione di scritti sediziosi che circolavano per la città. Nell'aprile 1815 s'era unito in matrimonio con la donna del suo cuore, Claudia Calegari, giovane di buona famiglia concittadina. Con lei, che doveva poi nei giorni dell'avversità dargli prova di quanto possa una profonda affezione, aveva trascorso i più begli anni della sua vita nella serena letizia degli affetti domestici, non mai turbata dal più lieve disappunto. Ambedue, abbiamo detto, perché s'ella non cooperò col marito nella lotta politica contro il Governo, certo però fu a conoscenza del suo agire e non lo disapprovò. La loro unione fu benedetta di numerosa figluolanza, come abbiamo veduto. E i figli crebbero educati civilmente e religiosamente con ogni cura. Era una famiglia modello. Attesta il parroco che il Gabussi era un ottimo padre e marito. Elogio che la sua Claudia avrebbe del pari ottenuto, se si fosse trattato di lei: moglie e madre esemplare. Da qualche anno avanti la rivoluzione, per meglio sopperire ai bisogni della famiglia aveva egli aggiunto alla professione legale il commercio librario. Aveva aperto bottega. Ma ne entravano e ne uscivano opere proibite. E la polizia che da tempo gli teneva gli occhi addosso, un brutto giorno per lui. Il 12 marzo 1833 vi fece irruzione e volle vedere. La perquisizione diede il frutto che si cercava. Varie opere incriminate furono rinvenute. Lo arrestarono: fu rinchiuso in carcere e processato. L'accusa di «ritenzione e promulgazione di opere, stampe sediziose ed irreligiose» era grave. E i precedenti politici dell'accusato la rendevano anche più pericolosa. Dopo più che nove mesi di detenzione preventiva, egli si trovava nel Natale di quell'anno alla vigilia di essere giudicato. Proprio allora gli era stata data notizia che la discussione della sua causa avanti la Sagra Consulta in Roma, già fissata pel 20 dicembre, era stata rinviata di alquanti giorni. L'agonia dell'attesa si promulgava. E la povera donna, la dolce compagna della sua giovinezza, l'amorosa madre delle sue creature a cui l'avevano strappato, era ritornata dalla visita fattagli in carcere, più dolente del solito. Nel giorno della festa che al focolare domestico conferisce un senso di religiosità intima e profonda, la mancanza del capo di casa era maggiormente sentita. E quell'indugio frapposto all'ultimo momento alla decisione della causa era un altro motivo di amarezza. Bisognava ancora subire la paura dell'ignoto. Ma ell'era forte, e sorretta dal gran bene che gli voleva. Afflitta si, ma non prostrata. I doveri che la dolorosa circostanza le imponevano sapeva che li avrebbe compiuti fino all'ultimo. Aveva coscienza del tesoro di bontà e d'energia che possedeva. Sentiva che comunque andasse la cosa, per quanto potessero essere crudeli i giudici e grave la pena, a lui e ai figli non sarebbe mancato mai il soccorso del suo vigile affetto. In questo sentimento era la forza che la sosteneva, e la preparava a sopportare il terribile colpo imminente.

Riusciti vani gli sforzi fatti durante l'istruttoria per smontare l'accusa o attenuare almeno la gravità degli accessori che la corroboravano, il Gabussi dal tribunale romano fu trattato senza pietà. Lo condannarono a venti anni di galera: pena che appare sproporzionata all'imputazione. Ma più che lo spaccio di libri incriminanti si punì in lui il suo passato di agitatore d'idee e propositi rivoluzionari. La sentenza data l'ultimo dell'anno, fu pochi giorni dopo approvata dal pontefice e così divenne esecutiva. Il 30 gennaio fu ufficialmente notificata al condannato, e nel contempo si fecero i necessari preparativi per la sua traduzione a Civita Castellana. A metà febbraio, in tradotta ordinaria e in compagnia d'altri infelici del pari avviati a quel reclusorio, lasciò Bologna e incominciò il triste cammino. Qui appare in piena luce, mirabile di attività, previdenza, abnegazione, la figura della moglie. Nei giorni che precedettero quello funesto della partenza ella non si diede riposo per rendergli il viaggio men penoso che si potesse. Raccolse il più possibile di valsente affinché ben provveduto trovasse men dura la reclusione. Il denaro è un potente alleato. Gli procurò lungo la via buone accoglienze e soccorsi, raccomandandolo a quanti sapeva aver avuto relazioni con lui. Citeremo fra l'altre una lettera da lei diretta a certo signor Annesio Nobili libraio-editore di Pesaro, con cui da anni il Gabussi era in rapporto di affari e di amicizia.

«Preg.mo Sig. Nobili / Bologna li 19 feb. 1834» «Fra pochi giorni sarà condotto in queste codeste carceri di passaggio l'infelicissimo mio marito avv. Giuseppe Gabussi che lei ben conosce. Interesso l'ottimo suo cuore a volere fargli recapitare la qui acclusa, che lascio aperta acciò veda cosa dice. È cosa facile a potere parlargli, se Ella per opera di pietà facesse ciò, la interesso per parte mia che non faccia sapere ad alcuno di avere con sé qualche denaro, e che anzi sarebbe necessario che coi Ni (napoleoni) d'oro facesse i bottoni dell'abito, e che il resto dell'oro ne facesse un sacchettino e lo riponesse cucito sotto un braccio, fra la fodera e il diritto d'una manica. La sorte di questo ottimo Padre di famiglia, tanto infelice, deve interessare tutti quelli che hanno umanità, Io mi dirigo a lei, perché so quanto è buono. Consoli dunque il mio povero marito, lo consigli, lo appoggi se può...». E non ancora aveva egli varcata la soglia del penitenziario ch'ella sollecitava instancabile gli amici di lui, in Bologna e Roma, per ottenergli se non la grazia, almeno una diminuzione di pena o l'esito invece della reclusione. Ma ciò non era possibile. Il governo aveva in proposito ferro agli orecchi. Pregò allora che lo togliessero da Civita Castellana e lo trasferissero in una prigione meno insalubre e men lontana da Bologna. La lettera ch'ella indirizzò al Nobili il 2 giugno 1834, dopo tre mesi che il marito viveva all'ombra delle massicce muraglie dello Spielberg italiano fa fede del punto a cui si erano ridotte le sue speranze. Lettera commovente che rivela appieno – a chi col guardo della mente vede – il cuore amante e straziato di quell'infelice. "… mi sarebbe necessario di avere una seconda volta quel certificato che io pregai di farmi, e che qui appiedi troverà la formula precisa. Esso fu posto in atti e trovandosi questi a Roma resta difficile averne copia. Io vorrei servirmene a vantaggio del povero mio marito, esso si trova in cattivissimo stato di salute, l'aria di Civita Castellana gli è nociva e purtroppo gli sarà micidiale se egli deve stare molto tempo. Quanto in mezzo alle mie disgrazie io mi chiamerei felice se potessi ottenere che fosse traslocato in Pesaro, Ella tanto buono, tanto compassionevole, e con tanti mezzi, non potrebbe procurarmi una raccomandazione dell'E.mo Cardinale Albani, per vedere almeno che si potesse per grazia Sovrana ottenere che fosse qui traslocato, e così liberarmi del continuo timore di perderlo per sempre? Se lei è padre comprenderà lo stato mio di desolazione, e compatirà certamente il desiderio mio, e l'incomodo che le reco. Io mi trovo isolata in mezzo a sei figli senza mezzi, e ormai senza vita! Ho necessità per vivere di un qualche ristoro. E sarebbe grande, se io sapessi lui in modo adatto alla sua debole salute. Se si potesse far vedere all'E.mo una supplica difensiva, son persuasa che con quella conoscerebbe che l'infelice Gabussi non è indegno della Grazia Sovrana: se lei credesse ben fatto gliene potrei spedire una copia. Intanto la prego di questo attestato legalizzato, e la prego più sollecitamente che sia possibile...". La lettera si chiude col testo della dichiarazione ch'ella pregava il Nobili di rilasciarle, attestante che il marito nel 1831, al tempo dell'intervento austriaco, s'era ridotto in Ancona non al seguito del Governo rivoluzionario, ma in giro per affari del suo commercio librario.

Il Nobili si affrettò ad accontentarla e le spedì il certificato. Ella unitolo ad altri di cui era provvista e ad una supplica che il marito le aveva affidato poco prima di lasciare Bologna, inviava l'incartamento al Nobili con preghiera di presentarlo o farlo pervenire al card. Albani. Ciò faceva ella il giorno 11 di quello stesso mese di giugno. Come si vede, non perdeva tempo. Il Nobili si assumeva e assolveva da par suo anche quell'incarico, valendosi delle cospicue aderenze e influenti amicizie che aveva. Ma, per allora tutto fu inutile. La donna tuttavia non si diè vinta. Finché durò la cattività del marito non cessò, coadiuvata dal fratello di lui, l'insigne musicista Vincenzo Gabussi che a Londra onorava il nome italiano, di agitarne la causa presso personaggi altolocati e autorevoli. E nel 1836 finalmente, succeduto il Labruschini al Bernetti nella segreteria di Stato, ella vide aprirglisi le porte del carcere. La reclusione gli era stata commutata nell'esilio al Brasile. Era forse peggio. Così ella dovette ancora farsi in quattro per evitarli quella remota e insalubre destinazione. E grazie ad intercessioni potenti fu concesso al Gabussi di andare esule a Londra.

Nel novembre, 32 mesi dopo che vi era entrato, fu dimesso dal reclusorio e poté alquanti giorni fermarsi a Bologna. Fu un raggio di sole che interruppe la nera tristezza della separazione ma se questa doveva continuare, più non era però tanto dolorosa come prima. Egli doveva ancora allontanarsi dalla famiglia, e forse per molto tempo ma la meta del suo cammino non era più la tetra muraglia della prigione, bensì la casa ospitale del fratello che gli si apriva nella metropoli inglese a riceverlo. Questo pensiero temperava nell'animo suo e dei suoi l'amaro del nuovo distacco. E la donna che con infaticata premura era riuscita a trarlo dall'unghie dei carcerieri, cresciuta di animo per la difficile e quasi disperata vittoria, accarezzava l'idea che il giorno di poter per sempre ricongiungere a lui la famiglia non sarebbe lontano. Così le lagrime ch'ella versò dicendogli addio, furono meno sconsolate di quelle tante che il lungo martirio le aveva fatto piangere. La speranza schiudeva fra esse il suo dolce sorriso. E non fu menzognera speranza. Perché dopo aver passato circa due anni in Inghilterra, e peregrinato poi in Francia e Svizzera, avvicinandosi man mano al confine, nel 1839 Giuseppe Gabussi rientrò in Italia. Non però nello stato pontificio. Questo gli rimase chiuso finché visse Gregorio. Anzi, racconta il suo figlio primogenito, non trovò subito ove posarsi, ché il Governo papale lo perseguitò dovunque andasse lo fece espellere da Parma ove intendeva fermarsi. Si stabilì finalmente a Firenze; e là gli si unì la famiglia. La dolorosa parentesi, aperta nel 1833, si chiudeva nel 1839. ALFREDO CAVARA".

Testo tratto da 'Claudia Gabussi', nella rivista 'Il Comune di Bologna', aprile 1934. Trascrizione a cura di Zilo Brati, aprile 2020.