Schede
I cimiteri sono luoghi in cui si sedimentano gli episodi, i personaggi e gli uomini del passato. Siti pieni di storia, in cui, se si fa attenzione, è possibile scorgere la cronaca di ciò che è avvenuto. Oggi, andando in giro per la Certosa, si può leggere parte della storia della Bologna ottocentesca, quell’epoca intrisa dal sentimentalismo romantico che caratterizza il periodo e che si riscontra anche nelle sculture cimiteriali e nella poeticità degli epitaffi. La morte romantica è sentimentale fino all’estremo, i temi che essa tocca sono tutti legati alle passioni umane, e vengono poi esternati nelle iscrizioni tombali: la tristezza di una vita privata dei suoi affetti, l’incapacità di adattarsi alla morte di persone care, ma anche l’ammirazione della morte come fenomeno dalla sua intrinseca bellezza. Il tormento di chi rimane e le virtù di chi se ne è andato sono tra le caratteristiche più frequentemente evidenti nelle iscrizioni lapidarie del cimitero bolognese. La poeticità delle epigrafi, la loro dolcezza, insieme alla loro malinconia, le rendono un modello emblematico della concezione della morte romantica.
Tutte le iscrizioni della Certosa a cavallo tra la seconda metà del 1800 e i primi anni del 1900, hanno in se le caratteristiche tipiche che l’epoca romantica impone. Passeggiando per la parte più antica del cimitero felsineo, quindi, ci si può ubriacare tra sentimentalismi e malinconie, in quella che appare una perfetta atmosfera di mestizia e accoramento. Ma attenzione, perché dietro a cotanta compiutezza, si cela il peso schiacciante della burocrazia.
Tra le iscrizioni, infatti, si nasconde una singolare storia. Protagonista una piccola lapide, che formalmente (e banalmente), ci racconta molto delle virtù della vita a cui è dedicata, ma scavando un pochino più a fondo, anche di quello che era il fardello dell’amministrazione pubblica italiana alla fine dell’Ottocento. Scordatevi, quindi, il Carducci e quel poetico cimitero a cui la parvenza dell’epoca romantica ci ha abituati, perché la realtà dell’epigrafe dedicata a Fulvia Filippi, di lirico, ha ben poco.
La questione inizia, verosimilmente, qualche giorno dopo la morte di una virtuosa madre di famiglia (di cui la Certosa è abbondantemente popolata), Fulvia Filippi sposata Matteoli, avvenuta il 16 settembre 1886. Com’era uso all’epoca il marito dell’estinta, per onorare la memoria della cara consorte, decide di scrivere una lunga e commovente iscrizione in suo ricordo. E fin qui, tutto si addice perfettamente ai costumi di una cultura che pone il sentimento al di sopra di tutto. Ciò che di sentimentale ha ben poco, è la disputa che si venne a creare tra il marito in questione, Cesare Matteoli, e un responsabile della Segreteria dell’Ufficio Cimiteriale della Certosa, che riteneva essere il componimento stilisticamente eseguito male.
I documenti ritrovati attestano il primo atto della controversia con una missiva datata 21 gennaio 1887, quando l’impiegato cimiteriale, dopo aver cercato invano di far modificare il testo, si vede costretto a rivolgersi al Municipio. Dichiara l’impiegato nella lettera: “Le cose che ho qui scritte, ebbi già occasione di dire verbalmente al cav. Matteoli quando per la prima volta presentò all’ufficio l’epigrafe. Non potendomi persuadere che esse non siano ragionevoli, mi veggo obbligato di ripeterle, lasciandone il giudizio al Municipio […]”. Allo scritto si trovano allegati tutti i passi dell’epigrafe che avrebbero necessità di essere corretti, insieme alla versione originale dell’iscrizione composta da Cesare Matteoli, che così recita:
Inspirata / all’immagine delle virtù materne / Fulvia nata Filippi / che per anni ventiquattro / gioia e delizia / del suo compagno di vita / Cesare Matteoli / Segretario d’Intendenza di Finanza; / ed era guida amorosa / alla diciottenne sua figlia / creatura angelica / verde ancora nell’età / Consorte soave tanto / così tenera madre / rendeva lo spirito a Dio / in Bologna / il 16 settembre 1886 / Ma la memoria di un cuore gentile / è fiore di paradiso / che eterno vive.
Un componimento abbastanza comune per la necropoli bolognese, ma che per qualche ragione, turba il gusto poetico del funzionario, che avrebbe dovuto autorizzarne l’incisione sul marmo. Le righe che maggiormente disturbano il dipendente sono le prime due, dal momento che secondo lui “sono versi più adatti a incominciare una strofa che un’epigrafe. In essi poi la locuzione è ambigua, perché è incerto se l’autore abbia voluto dire che Fulvia Filippi si ispirò alle virtù esemplari e proprie di una madre, o se invece imitò le virtù della madre sua”. Per farla breve, una strofa goffa e inelegante secondo il nostro revisore, che però non si limita affatto a questa correzione, ma prosegue implacabile affermando che “Creatura Angelica (Il sottolineato è dello scrivente ndr) e quel che segue è incerto se debba riferirsi alla madre o alla figliuola. Si è voluto toglier via la confusione della sintassi segnando punto fermo dopo angelica: ma nell’epigrafe non ha luogo punteggiatura, allora però va cancellato anco il punto e virgola che è nel fine dell’ottava riga. Verde ancora nell’età […] lascia incerto se debbasi intendere ch’ella fosse ancora in età fresca oppure che, essendo in età matura, si mantenesse verde tuttavia”. Inoltre “le righe tredici e quattordici non fanno che ripetere le lodi della sposa e della madre già significate nelle righe 5 e 6 e nella 9”.
Per un attento conoscitore delle iscrizioni della Certosa, quest’ultima critica appare la più incomprensibile, dato che ogni lapide ottocentesca presente nel cimitero contiene un’infinita ripetizione delle medesime virtù. Viene da domandarsi se il nostro impavido impiegato mettesse tanto fervore nella correzione di ognuna! “Rendeva lo spirito a Dio in Bologna certamente la locuzione non contrasta né al senso né ad alcuna regola grammaticale; pure presenta una non felice unione di idee”. E per finire “Ma la memoria ecc. considerata la locuzione con che si chiude la parte narrativa dell’epigrafe, crederei che qui fosse bene tor via il ma”.
Insomma, un disastro. Che l’epigrafe fosse scritta male, per l’impiegato, non c’erano dubbi. E nemmeno il pericolo di “vana disputa” riescono a dissuaderlo dalla caparbia volontà di una lapide scritta con stile. Ciò nonostante, il funzionario della Segreteria della Certosa decide di mostrarsi condiscendente (a modo suo), e conclude la lettera indirizzata al Municipio scrivendo: “Tuttavia per non dare luogo ad una vana disputa, sarei d’avviso che, quando fossero mutate le due prime righe, e, a chiarire la sintassi tra l’undicesima riga e la dodicesima e fosse lasciato uno spazio il quale fosse indizio che poi incomincia un nuovo periodo, il signor Segretario dell’ufficio del Cimitero potesse egli concedere la incisione”. Ma da un documento successivo ci è dato sapere che “L’epigrafe del Matteoli è stata rimandata all’ufficio del Cimitero senza mutazione alcuna, neppure quella che pareva accettata delle due prime righe, sulla quale debbo necessariamente insistere. […] Ho aperto un’uscita in questa ingiuriosa questione”. In altre parole, la situazione rischia di diventare offensiva, “ingiuriosa” verso il sentimentalismo dell’epoca, ma anche verso il nostro.
Una vicenda da commedia dell’assurdo, se non si trattasse della commemorazione di una defunta, in cui l’antagonista (l’implacabile burocrate) rispetta a tal punto la forma da non esitare a trasformare poche righe in una “questione ingiuriosa”. Un documento datato 5 febbraio 1887 pone fine alla faccenda, stabilendo che l’Ufficio del Cimitero può eseguire le migliorie “Rimessa la copia dell’epigrafe corretta per la incisione della lapide”. Evidentemente, con il benestare del Signor Matteoli, di cui ignoriamo, ma immaginiamo lo stato d’animo non troppo lieto. D’altra parte l’Ottocento è quasi finito, il Romanticismo è alle sue battute finali e quindi il sentimento lascia progressivamente spazio ai cavilli e alla burocrazia. Non ci resta pensare che l’agguerrito impiegato, essendo le lapidi ultimo omaggio e ricordo eterno, abbia creduto fosse giusto volerle impeccabili.
È lecito domandarsi, se nella gestione del cimitero più affollato dell’Emilia Romagna, non ci fossero questioni più urgenti. Oppure perché, di fronte alla miriade di iscrizioni dal senso enigmatico e dalla sintassi non sempre ineccepibile, si sia ostinato proprio su questa, dal momento che essa non appare particolarmente mal scritta, né si discosta stilisticamente dagli altri epitaffi della Certosa. Appare improbabile che ogni iscrizione aprisse una controversia, dal momento che, se così fosse stato, oggi, oltre ad essere sommersi di documentazione in proposito, conosceremmo la Certosa come il cimitero più polemico della storia. Ma, a oltre un secolo di distanza, non ci è dato sapere. Quindi mettiamoci per sempre, e una volta per tutte, l’anima in pace.
Genny Bronzetti
Testo stratto da: B. Buscaroli, R. Martorelli (a cura di), Luce sulle tenebre - Tesori preziosi e nascosti dalla Certosa di Bologna, catalogo della mostra, Bologna, Bononia University Press, 2010.