Schede
L’imperatore Federico I Barbarossa è per gli Italiani una figura ambivalente e in grado di suscitare ancora sentimenti del tutto opposti: a Milano, Tortona e Asti, città distrutte dal Barbarossa, egli è visto ancor oggi come simbolo dello straniero oppressore; a Como, Pavia, Lodi, così come in altri comuni effettivamente di parte imperiale all’epoca degli Svevi o presunti tali, permane il ricordo del Barbarossa quale antico sostenitore del proprio sviluppo cittadino. In considerazione di queste tradizioni e culture della memoria così differenti, affrontando la questione della – o meglio delle – prospettive italiane nei confronti del Barbarossa già presso i contemporanei bisogna tener conto di dati molto vari che nei secoli successivi avranno la loro ricaduta in esiti alquanto diversi nella storiografia, nell’arte e nella letteratura. Anche a Medicina al Barbarossa spetta un ruolo rilevante e per molti versi fondatore d’identità nella cultura della memoria comunale. […]
1. Il santo Barbarossa | Una storia incredibile è alla base anche di quella curiosità della recezione sveva che è custodita nella chiesa parrocchiale dei SS. Nazaro e Celso a Brienno sul lago di Como. Nel piccolo reliquiario del XVII secolo, tra le reliquie accuratamente conservate di diversi santi, si trova anche l’iscrizione che indica una “Reliquia Sancti imperatoris Friderici Barbarossae” e documenta così che a Brienno, probabilmente già dal tardo Medioevo, si custodiva e addirittura si venerava una reliquia del Barbarossa. Rimangono poche tracce riguardanti i fatti. Nell’archivio parrocchiale non si trova più niente che permetta di definire in modo più preciso il momento iniziale di questa venerazione, simile a quella tributata a un santo, per Barbarossa. Nei più tardi atti della visita pastorale del 1593 le reliquie dell’imperatore vengono perlomeno menzionate e ancora alla fine del XIX secolo dovevano esistere materialiter, come le aveva viste e descritte all’epoca lo storico comasco Santo Monti. Oggi si conserva solo ciò che si vede nell’immagine. Se tuttavia si apre l’involto cartaceo, la speranza di imbattersi nei resti mortali dell’imperatore, e in particolare nel dente di cui parla la tradizione locale, rimane delusa e ci si trova con un pezzetto di legno non meglio definibile tra le mani. Finora non si è riusciti a mettere in connessione tale venerazione del sanctus Barbarossa a Brienno con fatti storici del XII secolo. Solo le buone relazioni degli Svevi con la vicina città di Como che, come Pavia, era tra le principali città nemiche di Milano e dunque una delle più importanti alleate del Barbarossa durante le sue discese in Italia, potrebbero costituire un indizio per spiegare il ricordo particolarmente positivo. Ma in mancanza di dati sicuri, sono di aiuto talvolta le leggende. A Brienno l’esistenza della strana reliquia del Barbarossa viene spiegata con un racconto assolutamente di fantasia, di origine popolare. E così il Barbarossa, dopo la sconfitta di Legnano, in seguito ad una solenne ubriacatura sarebbe caduto a Brienno in modo così rovinoso da rompersi un dente che gli abitanti avrebbero conservato con assoluto rispetto – il racconto si può leggere sul sito del Comune ma anche sentire dal sagrestano della parrocchiale, che mostra non senza orgoglio il posto preciso dove, secondo la leggenda, solo poco al disopra del lago, il Barbarossa sarebbe inciampato, rompendosi il dente.
2. “Salus ex inimicis nostris” - Amato nemico - Barbarossa e Spoleto | Nella città umbra di Spoleto ci muoviamo forse su un terreno più solido per quanto riguarda le effettive relazioni con Federico Barbarossa. Tuttavia, anche qui, i racconti di fantasia hanno caratterizzato in modo del tutto diverso lo sviluppo successivo di un’immagine ambivalente, contraddittoria del Barbarossa. Innanzitutto i fatti. Già in occasione della sua prima discesa in Italia nel 1155 Spoleto finì sulle prime pagine della cronachistica contemporanea. Nel momento in cui l’imperatore appena incoronato, tornando da Roma, alla fine di luglio del 1155 impose il fodro e la città rifiutò i pagamenti o meglio pagò in parte con falsa moneta, imprigionando anche un legato imperiale, l’imperatore interpretò questo atto come una provocazione e un’offesa dell’honor imperii, cui bisognava rispondere con violenza. Solo dopo parecchi giorni di aspri combattimenti, le truppe imperiali conquistarono la città, provocando un bagno di sangue che ottenne un’eco assolutamente critica in numerose fonti contemporanee anche vicine all’imperatore, come nella successiva storia della recezione in ambito artistico e letterario. È ancor oggi viva in Spoleto un’antica tradizione (orale) che indica esattamente il luogo dal quale l’imperatore, alla testa delle sue truppe, avrebbe espugnato la parte alta della città. Nella storiografia spoletina la distruzione della città occupa ampio spazio fin dall’inizio del XVI secolo, anche se chiaramente variano le modalità con le quali essa viene ricordata da ciascun autore. Accanto al Federico distruttore trova posto anche un altro Federico del tutto diverso, più simpatico, che anni dopo, nel 1185 avrebbe donato alla città in segno di riconciliazione una famosa icona bizantina di Maria, che – secondo la leggenda – sarebbe stata dipinta dall’evangelista Luca e che è ancor oggi venerata nella cattedrale. Queste due immagini così contrastanti del Barbarossa giocano entrambe un ruolo di rilievo nella cultura della memoria spoletina e vengono ricordate o meglio messe in scena secondo il contesto pertinente a diverse occasioni. Quando nel giorno dell’Ascensione (Ferragosto) del 1668 l’icona di Maria fu solennemente collocata in una nuova cappella, la storia della distruzione della città per mano del Barbarossa si intrecciò alla storia della donazione dell’icona, divenendo un elemento costitutivo della storia cittadina. In una processione, descritta da un testimone come “mai veduta un’altra né più lieta, né più solenne, né più divota in questa città, ove in tanta moltitudine e migliaia di popoli che vi concorsero”, fu messa in scena con immenso dispendio come specifico luogo della memoria della città proprio una rappresentazione del nemico di un tempo riconciliato. Su entrambi i lati della strada diverse immagini con scene della storia cittadina, statue e ritratti dell’imperatore fiancheggiavano il corteo della processione; di essi si è conservata almeno un’immagine che mostra Barbarossa con scimitarra e turbante come un sultano turco (i nemici del 1668). Quanto queste rappresentazioni di nemico e amico a Spoleto siano intercambiabili in funzione del contesto è documentato da quei testi che nel XVIII e nel XIX secolo furono regolarmente pubblicati in occasione dei centenari della distruzione o della donazione. Qui l’imperatore è rappresentato in contestualizzazioni ambivalentemente differenti, nelle quali si manifesta in modo particolarmente evidente il vincolo con l’epoca e la collocazione specifica di questa memoria divisa del Barbarossa. In una poesia dello spoletino Campello, pubblicata nel 1844 in una rivista letteraria femminile “La Rondinella” al Barbarossa nel ruolo del donatore che perdona si sostituisce una caricatura moralistica di un aggressore straniero (“Oh Barbarossa o prole empia d’Inferno, il nome e l’ossa tue sperdano i venti!”) alle cui “esecrate mani” sfugge proprio l’icona e contro il quale prometterebbe protezione agli abitanti della città proprio il dipinto da lui donato. Questa immagine del Barbarossa era senza dubbio fortemente influenzata dalla temperie risorgimentale e dalla rappresentazione ostile del “furor teutonicus”, sviluppatasi in modo chiaramente molto intenso nella propaganda antiasburgica dell’epoca per legittimare le aspirazioni ad un’Italia unita. Nel 1885, in occasione dei 700 anni della donazione, i punti chiave di questo Barbarossa si spostano nuovamente ed egli diviene ora bersaglio della critica clericale e metafora dell’inimicizia verso la Chiesa del nuovo Stato italiano come si legge in una pubblicazione contemporanea: “Era adunque a prevedersi, che allo invecchiarsi del XIX secolo, facendosi rivivere le stesse idee antireligiose e anticristiane dell’abborrito Barbarossa da quegli stessi, che si gloriano esser figli d’Italia, mentre la Chiesa geme inceppata dalle catene di servitù sì lunga e sì straziante, e l’alito pestifero della incredulitá ammorba anche taluni di questa privilegiata Metropoli, si riaccenderebbe il sacro fuoco dei nostri padri nella fausta celebrità centenaria…”. Nel 1955, per dare un ultimo esempio per Spoleto, era ancora viva la memoria degli orrori della seconda guerra mondiale. Chi potrebbe meravigliarsi quindi del fatto che per gli 800 anni dalla distruzione della città da parte del Barbarossa nel discorso del sindaco si facesse allusione in modo inequivocabile ai recenti crimini di guerra tedeschi e che la distruzione di Spoleto del 1155 venisse reinterpretata come simbolo della Resistenza: “Lungo fu il calvario d’Italia. Si cadde si risorse, e attorno al Carroccio con saldi petti s’adunò la gioventù Latina contro la barbarie teutonica.”
3. Storie incredibili o: la verità del falso | Probabilmente in nessun’altra epoca nella tradizione documentaria abbiamo a che fare con una percentuale tanto alta di falsi nel senso più ampio come per il Medioevo. Anche per l’epoca di Federico Barbarossa abbiamo solo per destinatari italiani circa 60 “veri falsi” o “falsi” documenti, con i quali dovevano essere provati quei diritti che si credeva a buon diritto di possedere o di avere un tempo posseduto. Oltre ai falsi per gli enti ecclesiastici (monasteri o episcopati) devono essere menzionati i falsi genealogici, con i quali si intendeva soddisfare un’aspirazione tipica dell’epoca ad una tradizione familiare il più possibile autentica. Se proprio non si riusciva a far risalire il proprio albero genealogico fino ad un Troiano in fuga, poteva esserci almeno un privilegio di Carlomagno o di un imperatore svevo con il quale documentare la nobiltà della propria famiglia. Nel XVI secolo si costituì così un redditizio mercato per abili falsari cui si rivolgevano famiglie abbienti; tra di loro il medico perugino Alfonso Ceccarelli ottenne una certa deplorevole fama e fu perciò giustiziato a Roma nel 1583. Per l’epoca degli Svevi finora solo 22 documenti sono stati riconosciuti essere falsi di Ceccarelli. Nel caso dei destinatari si tratta perlopiù di persone e famiglie provenienti da città nelle quali sono documentati dalle fonti soggiorni del Barbarossa o relazioni, che danno agli sforzi del falsario una certa plausibilità; spesso i falsi sono elaborati avendo ad esempio o modello documenti veri. Uno di questi falsi di Ceccarelli è ad esempio quel documento con cui Federico Barbarossa avrebbe concesso il 7 settembre 1162 a Ludovico Baglio, duca di Svevia, e ai suoi parenti la signoria (il vicariato) sulla città di Perugia, documento su cui torneremo in seguito. Oltre alle classiche falsificazioni di documenti, esistono anche altri metodi per conferire effetti durevoli a presunte azioni benefiche dell’imperatore. Non poche famiglie fecero elaborare con testi e iconograficamente genealogie leggendarie del tutto mirate, in parte con un rilevante influsso sulla grande politica della scena europea. Ricordiamo qui come caso di particolare rilievo la storiografia familiare dei milanesi Visconti, che assunse una certa importanza nel contesto della nomina di Gian Galeazzo Visconti a duca di Milano da parte di re Wenzel. In essa si richiama tra l’altro la storia inventata del leggendario conte Galvano di Angera, che un tempo avrebbe combattuto valorosamente contro Federico Barbarossa per la causa lombarda, ma che, dopo la sconfitta dei Lombardi, come punizione sarebbe stato privato dall’imperatore della signoria e della dignità di conte. Con l’invenzione di questa figura del conte Galvano di Angera i Visconti dovevano riuscire a determinare una notevole divaricazione tra la battaglia condotta un tempo per la libertà di Milano e le loro attuali buone relazioni con l’Impero. La precedente ostilità contro Barbarossa divenne perciò un momento-chiave nella questione dell’origine nobile storicamente fittizia dei Visconti, un momento che ora nel contesto delle nuove positive relazioni con re Wenzel doveva essere riesaminato e infine fu anche rivisto con la nomina a duca di Gian Galeazzo Visconti. Efficaci possibilità nello sforzo di ottenere rilevanza pubblica sono offerte da iscrizioni, elaborate anch’esse pro familia. Un esempio particolarmente significativo a questo proposito è costituito da un’iscrizione attribuita al XII secolo della famiglia degli Ubaldini, che, di presunta origine longobarda, divenne nel XIII secolo una delle più importanti famiglie signorili ghibelline toscane in competizione per Firenze. La lunga iscrizione in volgare narra una parte della storia, completamente inventata, di come la famiglia sarebbe giunta ad ottenere il suo stemma con il cervo. Un antenato degli Ubaldini, un fedele servitore del “Sacrum Imperium”, nel luglio 1184, in presenza dell’imperatore Federico Barbarossa, durante una battuta di caccia avrebbe preso per le corna un cervo, trattenendolo ai piedi dell’imperatore, così che costui poté abbattere l’animale con un colpo. La ricerca ha riconosciuto come falsa questa iscrizione più di 100 anni fa. Autore dell’iscrizione si pensa possa essere stato Giovambattista di Lorenzo Ubaldini, che nel 1588 aveva redatto un’ampia Istoria della Casa de gli Ubaldini. In questa egli riesce ad indicare, oltre all’iscrizione, anche un’altra fonte storica, anch’essa – come noi sappiamo – del tutto inventata, che aggiungerebbe addirittura anche alcuni dettagli per spiegare la criptica successione di lettere che si trovano sullo stemma con il cervo Q. D. A. / U. A. D. “La sera davanti alla sua partita fu da detti Ubaldini tanto splendidamente nella cena, & honorato, e servito, che maravigliatosi di cotanta magnificenza proruppe in queste parole, per via d’interrogazione: Quis dominatur Apennini? e le replicò ben tre volte: e tacendo ogni huomo, rispose egli medesimo à se medesimo dicendo. Alma domus Ubaldini? ed essendo nel cortile del palagio là dove erono poste le tavole à un gran Tau laccio attaccata quella testa del Cervio che dice il marmot, volle, e commando, che à lettere per parte alla guisa delle medaglie fossero intorno a ditto taualaccio scritte le sue parole in honore della nostra famiglia, e cosi fu fatto”. Quanto sistematicamente la famiglia degli Ubaldini operasse nel processo di reinterpretazione della storia, con l’obiettivo di ottenere un effetto ampio e il più possibile duraturo, risulta chiaro dall’insieme di misure da essi adottate per consolidare la propria presunta origine nobile, in un momento nel quale l’epoca d’oro e l’importanza politica degli Ubaldini erano ormai da lungo tempo storia. Parte di questa strategia della memoria fu ad esempio l’incarico conferito ad un famoso artista dell’epoca, Jan van der Straet, di dipingere in modo magistrale la scena di caccia e l’iscrizione, affrescando i soffitti del palazzo di famiglia (villa di Poggio a Caiano); tale affresco costituì il 14 modello per la raffigurazione “venationes etc.” nella sua famosa serie di incisioni, le cui numerose riproduzioni successive garantirono al meglio la diffusione nel tempo e nello spazio della leggenda dell’imperatore riconoscente che caccia quale ospite degli Ubaldini. Con successo, dato che negli anni Trenta del Seicento il cardinale Roberto Ubaldini fece riprodurre la scena in grande formato ad olio nel suo palazzo romano dove ancor oggi si trova. Vorrei mostrare con altri due esempi quanto durevolmente, ma anche quanto contraddittoriamente riuscirono a svilupparsi nello specifico questi richiami genealogici di fantasia all’imperatore Federico Barbarossa. Negli anni Quaranta del Cinquecento l’umanista proveniente da Como Paolo Giovio (1483–1552) pubblicò un’ampia raccolta di brevi biografie di uomini famosi, tra cui gli “elogia virorum bellica virtute illustrium”, che egli aveva dedicato al duca Cosimo di Medici. Il contesto in cui furono realizzati questi elogi è strettamente collegato ad una raccolta di immagini che Giovio aveva messo insieme nella sua Villa Borgo Vico sul lago di Como quasi fosse un museo. Le biografie servivano come spiegazioni delle immagini. Alcuni di questi ritratti si conservano ancora perlomeno come copie, tra questi anche quello del Barbarossa. A Federico Barbarossa furono riservate da Paolo Giovio nel testo riferito alla sua immagine le peggiori notazioni pensabili. Indicando principalmente fonti del XII secolo, egli fustiga l’imperatore con i peggiori attributi definendolo persecutore della Chiesa, amico della guerra, che avrebbe volto al contrario il significato del suo nome – tradotto letteralmente “ricco di pace” (“Der Friedensreiche”) e così – con le sue parole – “divina humanaque Fridericus impie perturbavit”. Nei suoi altri scritti di storia cittadina Giovio, narrando la storia della sua città e della sua famiglia (gli Zobii), ci presenta un Barbarossa del tutto diverso: un Federico che appare come protettore e difensore della città di Como contro la tradizionalmente ostile Milano e, non da ultimo, della sua stessa famiglia, alla quale nel 1159 Barbarossa avrebbe concesso con l’aquila imperiale un privilegio di nobiltà. Non senza orgoglio questo è testimoniato da una specifica iscrizione, che un tempo risaltava sul portale d’ingresso del palazzo di famiglia a Como. Queste due immagini del Barbarossa del tutto contrarie e in forte contraddizione reciproca non si escludono necessariamente. Tuttavia desta meraviglia che esse vengano presentate all’interno di una stessa famiglia e addirittura dalla stessa persona, seppure in contesti differenti e per un pubblico diverso. E infatti il persecutore della Chiesa e il distruttore di metropoli non si accordava tanto alla prospettiva genealogica, nella quale l’imperatore che concede privilegi trova un posto senza macchia in una cultura locale-familiare della memoria, resa pubblica anche dall’iscrizione. Questa era evidentemente destinata ad un pubblico comasco, dinanzi al quale la famiglia con la sua origine nobile documentata storicamente con evidenza voleva fare una “bella figura“ destinata a perpetuarsi nel tempo. Nel frattempo tuttavia la recezione di tali prodotti di fantasia dà i suoi propri frutti. Così la già citata falsificazione documentaria di Ceccarelli per i Baglioni viene riproposta ancora successivamente in un contesto del tutto inaspettato. Nel 1812 il conte Giuseppe Baglioni fece dipingere a Perugia dal pittore romano Vincenzo Camuccini proprio questa scena in stile neoclassico e la fece appendere nell’ingresso di Palazzo Baglioni a Perugia. Non è certo un caso che questi argomenti della storia familiare vengano riproposti programmaticamente nel momento in cui il conte Giuseppe e suo fratello dovevano stabilire relazioni intense con l’imperatore Napoleone, contatti che nel 1813 culminarono con la nomina del conte Giuseppe a “barone dell‘Impero“. L’arte non opera mai in modo del tutto decontestualizzato. L’atto leggendario della concessione del vicariato sulla città è posto qui in analogia storica con il proprio presente e Barbarossa diviene qui metafora storica del nuovo imperatore Napoleone. Con il dipinto nel foyer del Palazzo doveva essere espressa in modo programmatico la recente vicinanza con il nuovo imperatore francese, dopo che, solo poco prima, nel corso della guerra rivoluzionaria francese aveva avuto fine – perlomeno temporaneamente – la signoria del pontefice su Perugia. A questa specifica prospettiva e interpretazione si cercava di dare ulteriore risonanza non da ultimo attraverso la copia del dipinto ad olio, ma anche attraverso riproduzioni a stampa in alta tiratura. Come tutti sanno, è vero ciò che si crede – questo può ben fungere da premessa anche per l’attuale recezione di questa incredibile storia della finta concessione ai Baglioni da parte del Barbarossa. Per settimane e settimane essa fu presentata a centinaia di spettatori nel Teatro Comunale di Cagli (nelle Marche), prima di ogni rappresentazione, raffigurata su un enorme sipario, dipinto nel 1878 dal pittore Alessandro Venanzi su incarico del Comune per il nuovo teatro rinnovato. Secondo lo stile della pittura di storia dell’epoca è qui rappresentata con grande forza espressiva la scena nella quale l’imperatore Federico Barbarossa, sul campo di battaglia davanti alla città di Cagli che sorge sullo sfondo, investe con una verga Ludovico Baglioni, duca di Svevia, del vicariato o meglio dell’ufficio di podestà della città di Perugia – Un avvenimento “storico” svoltosi in Cagli il 7 settembre 1162, come si può leggere ancor oggi in diverse storie locali di Cagli, anche se noi oggi sappiamo con sicurezza che si tratta di un falso. Ma che relazioni si potevano stabilire nel 1878 con questa immagi ne? Perché a Cagli si scelsero queste scene della propria storia e non, per esempio, un più chiaro riferimento alla storia, nell’insieme molto più caratterizzante, dello Stato della Chiesa cui Cagli aveva appartenuto per alcuni secoli fin dal 1631? Volgersi al Medioevo e alla relazione fittizia con l’imperatore Federico Barbarossa era forse la proiezione con la quale si voleva accentuare in modo suggestivo la fine dello Stato della Chiesa e la nuova unità sotto un re d’Italia? I sipari teatrali si rivelavano in questo modo come un mezzo particolarmente efficace per imprimere nella memoria collettiva della cultura di una borghesia locale determinate immagini del Medioevo, reali o di fantasia. E se i cittadini di Cagli avessero guardato a lungo e spesso questo sipario, si sarebbe prodotto un effetto simile a quello del mito della caverna di Platone ed essi avrebbero prestato fede a questa falsa storia che, anche come racconto di fantasia, possedeva (e forse possiede ancor oggi) chiaramente un alto valore simbolico e una grande forza suggestiva per lo sviluppo di un’identità storica a Cagli, grazie alla quale riuscire ad autodefinirsi nella Nuova Italia unitaria in contrasto con il lungo dominio dello Stato della Chiesa.
4. Il cattivo Barbarossa - L’immagine del nemico come specchio della propria identità | Accanto a questi esempi di recezione positiva del Barbarossa esiste in diverse città d’Italia un’immagine di Barbarossa del tutto negativa, in particolare a Milano. La distruzione di Milano per mano del Barbarossa nel 1162 ottenne una perdurante eco sovraregionale già nelle fonti contemporanee; nelle stesse fonti vicine all’imperatore si parlò della brutalità e delle terribili conseguenze per gli abitanti in una particolare mescolanza di trionfale e tragico. Queste immagini definiscono ancora in tempi recenti questo specifico luogo della memoria dei Milanesi, rappresentando un Federico Barbarossa tirannico, crudele distruttore. Chi entra nel Duomo di Milano, che senza dubbio costituisce un luogo di alta valenza simbolica per l’autocoscienza comunale, trova anche là un rilievo in bronzo degli anni Cinquanta del Novecento che mostra lo spietato imperatore nell’atto di ricevere la capitolazione dei Milanesi o le truppe imperiali che distruggono la città. Non è certo un caso che nella resa iconografica di questo rilievo le truppe dell’imperatore portino quegli elmetti con punte che ricordano piuttosto quelli dei soldati tedeschi della prima guerra mondiale. Questa immagine negativa del Barbarossa dei Milanesi trovò all’epoca del Risorgimento una diffusione enorme e mirata in arte, letteratura, musica, come anche nella storiografia. Questa funzione del cattivo Barbarossa è di enorme importanza per il processo di unificazione italiano ancora fino all’inizio del XX secolo e meriterebbe una specifica relazione. Qui posso indicare solo alcuni esempi. Anzitutto un esempio milanese. Nel 1843 l’Accademia milanese di Brera bandì un concorso artistico con il seguente tema: “Dato Federico Barbarossa il comando di distruggere la città di Milano ai popoli ad essa nemici, i Lodigiani, Pavesi, Cremonesi, Comaschi etc., ed essendo questi in procinto di dar mano alla distruzione, gran numero di cittadini si prosternano supplichevoli a Federico, implorando, ma invano, la sospensione di quel crudele decreto”. Uno dei dipinti prodotti per questo concorso è di mano del pittore milanese Cherubino Cornienti (1816- 1860) che mostrò, secondo le aspettative, Barbarossa nelle vesti del guerriero freddo, brutale, privo di qualunque umanità, con l’armatura ancora sporca per la battaglia. Si può quasi udire il suo cinico “No”. Accanto a queste prospettive specifiche dei Milanesi, durante il Risorgimento, nell’ottica dell’agognata unità nazionale, due avvenimenti soprattutto furono messi al centro di una memoria funzionale di un Medioevo dei Comuni. Da un lato, la fondazione della Lega lombarda nel leggendario giuramento di Pontida del 1167, che non è per nulla chiaramente documentato dalle fonti medievali. Dall‘altro, la storica battaglia di Legnano (1176), che fu interpretata come una trionfale vittoria sull’imperatore, non solo nell’opera di Verdi, rappresentata per la prima volta nel gennaio 1849 nella Repubblica Romana. Legnano e Pontida divennero per i patrioti italiani, che combattevano contro la monarchia asburgica o contro lo Stato della Chiesa, simbolo e luogo della memoria di un’unità nazionale dell’Italia, presente ancor oggi nell’inno di Mameli. Nella penultima strofa si canta: “Dall’Alpi a Sicilia, dovunque è Legnano”. E negli stessi libri di scuola e per bambini fu ampiamente trasmessa questa immagine di un Barbarossa nelle vesti dell’aggressore straniero e oppressore. Nelle recenti messe in scena dell’opera risorgimentale “La Battaglia di Legnano” di Verdi, invece, Barbarossa sembra aver perso qualcosa del suo valore simbolico originario. In occasione della prima rappresentazione nel febbraio 1849 egli personificava ancora l’aggressore straniero, e, mentre la Repubblica Romana era minacciata dalle truppe francesi e pontificie, ogni spettatore comprendeva il messaggio, all’epoca altamente patriottico, che era onorevole morire per la patria. Nel 1849 l’opera fu un successo travolgente e si dovette ripetere per intero il quarto atto. Solo qualche anno fa, in diversi allestimenti dell’opera raramente rappresentata, la figura di Barbarossa era ancora interpretata in modo univoco come l’aggressore straniero, ad esempio, con riferimenti alla precedente minaccia degli Asburgo nel XIX secolo o perlomeno con allusioni al periodo della seconda guerra mondiale e alle truppe d’occupazione tedesche come obiettivo di una Resistenza. Nell’ultima messa in scena al Teatro dell’Opera di Roma, in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, vi furono violenti segni di disapprovazione. Evidentemente il tema mal si adatta all’odierna sensibilità e sembra troppo difficile trasporre il messaggio del 1849 in un linguaggio moderno. E così, ad esempio, nella rappresentazione romana sembra che in qualche modo si sia voluto o si sia cercato di vedere nel Barbarossa non più il tiranno straniero, ma, in un’interpretazione molto più astratta, figurata, colui che minaccia l’“alta cultura” italiana. Ora il tema non è la lotta tra le nazioni, ma il contrasto tra un’élite intellettuale e un volgare appiattimento dei nostri valori culturali. E così pochi mesi fa è nata una metafora del tutto nuova, che non mancherà in ogni caso di suscitare discussioni e che di certo non si accorda con l’immagine data al Barbarossa durante il Risorgimento. Questo sguardo di insieme qui solo brevemente tratteggiato sulla recezione del Barbarossa durante il Risorgimento e i primi anni dell’Italia unita è importante per comprendere o meglio per scuotere il capo di fronte all’attuale uso o meglio abuso di questo simbolo. Con il giuramento di Pontida e la battaglia di Legnano la Lega lombarda del XII secolo divenne simbolo dell’opposizione comunale ad una minaccia esterna, della rinuncia alle lotte intestine a vantaggio di un’unità nazionale. È conosciutissimo il classico libro per bambini “Il giornalino di Gian Burrasca“ di Vamba (pseudonimo di Luigi Bertelli), nel quale, dalla prospettiva di un ragazzino, Barbarossa ancora al inizio del XX secolo viene stigmatizzato come uno dei tre grandi tiranni d’Italia accanto a Galeazzo Visconti e al feldmaresciallo asburgico Johann Joseph Radetzky, che morì a Milano nel 1858 e che dal punto di vista degli Italiani aveva giocato un ruolo molto inglorioso nella repressione del Risorgimento. Solo sulla triade Galeazzo Visconti – Barbarossa – Radetzky si potrebbe parlare a lungo. […]
Kai-Michael Spreger
Istituto Storico Germanico di Roma
Conferenza tenuta in occasione della Festa del Barbarossa a Medicina il 18 settembre 2011. Testo tratto da "Brodo di serpe - Miscellanea di cose medicinesi", Associazione Pro Loco Medicina, n. 10, dicembre 2012.