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Iconografia dei Prestiti italiani di guerra

1916 | 1920

Schede

Se è vero, come asseriva una popolare battuta alleata del 1917, che la grande guerra sarebbe stata vinta dal General Thrift, ovvero dal “risparmio generale”, le vicende dei prestiti emessi dalle nazioni in guerra e in particolare quella dei sei Prestiti nazionali che mobilitarono l’Italia dal 1915 al 1920, assumono, nel complesso dell’intera vicenda bellica, un significato che induce a rileggerle con rinnovata attenzione. Affidate prima all’occhio che all’orecchio, non ostante le “assiepate riunioni” di propaganda, le campagne per i prestiti utilizzarono soprattutto i diversificati, ma coincidenti, canali del manifesto, dell’opuscolo e della cartolina illustrata. E se ai testi più o meno lapidari o prolissi di politici, storici, economisti, letterati e poeti – dalle didascalie di manifesti e cartoline ai proclami apparsi in opuscoli, locandine e foglietti volanti – era affidato il compito “esplicativo” di motivare, all’icastica suggestione delle immagini spettò quello “emotivo” di mobilitare.

Dall’insieme delle “figure d’assalto” che concorsero a comporre l’universo iconografico della grande guerra, questo lavoro si propone di ritagliare e mettere a fuoco “le immagini del salasso”, ovvero illustrazioni, vignette, cartoline e manifesti realizzati dal 1915 (o più esattamente dal 1916) al 1920, per promuovere e divulgare i Prestiti nazionali di guerra. Il catalogo della mostra goriziana L’arma della persuasione. Parole ed Immagini di Propaganda nella Grande Guerra, molto fondamentalmente rileva come, la pur ampia letteratura che affronta l’argomento della propaganda bellica, tenda ad analizzarne “soprattutto gli aspetti politici e letterari, mentre gli apparati illustrativi, in molti casi addirittura preponderanti rispetto ai testi e meritevoli di una speciale attenzione, non hanno ancora trovato un posto autonomo e adeguato nella storia della cultura figurativa”. Manca, in sostanza, un’analisi che, a partire dall’iconografia bellica contemporanea, recuperi i modelli figurativi sviluppatisi a monte della grande guerra, per saldarli a quel fenomeno rappresentato dalla messi di manifesti, illustrazioni e caricature che circolarono in Europa dal 1914 al 1920, per individuarne, nella complessiva specificità dei caratteri, la linea evolutiva tra possibili anticipi e inevitabili permanenze di schemi. Aspetto non secondario della pittura storica, la moderna pittura di battaglie, nata nei paesi anglosassoni alla fine del XVIII secolo, si fa convenzionalmente risalire a La morte del generale Wolfe, dipinta nel 1771 da Sir Benjamin West, il quale, per avere infranto l’obbedienza alle regole dell’arte che giudicavano scandalosa l’adozione dell’abbigliamento moderno nella pittura storica, fu costretto a difendersi dichiarando che l’evento da lui raffigurato “era avvenuto tredici anni prima in una regione del tutto sconosciuta ai Greci e ai Romani, e in un periodo di tempo in cui né nazioni, né eroi indossavano più il costume antico”.

Accanto alla ricorrente tendenza al recupero dei motivi classici, che nei secoli precedenti si era affermata già a partire dall’iconografia medievale di guerra: “omologata dalla distanza prospettica e da un velo di nostalgia mitizzante, la complessa realtà storica dell’antica Roma veniva così rievocata come un’unica, grandiosa epopea trionfale, tanto più esaltante quanto antitetica allo squallore di un presente che, specie nell’Alto Medioevo, si palesava così esplicitamente regressivo in termini di condizioni di vita e livello di civiltà”, si sarebbe evidenziata la tendenza del “pittore del Trecento, che non sa rendere folle, a immaginare la battaglia come un complesso di vari duelli non in mezzo al turbinio della polvere ed al tumulto delle armi e degli armati, ma come in un torneo sul campo di battaglia ben ordinato e pulito”. Bisognerà aspettare, con il Rinascimento, lo strenuo impegno prospettico di Paolo Uccello, che sarà “il primo ad avere una visione grandiosa della lotta fra due schiere di combattenti, il primo che affronterà il problema di rendere confusa e spaziata la mischia” e che, nel documentare tre momenti della battaglia di San Romano, più che cronache, comporrà “visioni in cui la guerra viene vista attraverso un filtro di favolosa irrealtà. Giustamente nelle Vite il Vasari definì queste opere ‘giostre’; cioè tornei nei quali emergeva più che l’aspetto cruento una araldica e coreografica spettacolarità”. Così, malgrado le fiammate tardo-rinascimentali e barocche, da Altdorfer a Rubens, la pittura di battaglie, che era stata prevalentemente celebrativa di fasti militari o di storie di santi guerrieri, diviene verso la fine del Cinquecento e nei primi decenni del Seicento, una pittura di ‘genere’. Ma perché tale definizione sia valida, “sono indispensabili diversi connotati, il primo e più importante dei quali è che il soggetto sia fine a sé stesso, che cioè la Battaglia non possegga un preciso riferimento storico, iconografico o simbolico, ma che” e qui Federico Zeri prosegue stabilendo uno stimolante parallelo con le ‘Nature morte’, “rappresenti un fatto d’arme sic et simpliciter”, l’altro connotato essendo individuabile nella produzione di massa, ovvero nella sostituzione del ‘committente’ con l’ ‘acquirente’.

Testimoniato dal clima eroico di composizioni prevalentemente allegoriche, riferite soprattutto alle gesta di sovrani e capi militari, quella presa di distanza dalla realtà che antepone la celebrazione alla cronaca, confermata dal fatto che, non ostante l’impiego della polvere da sparo fosse documentato sin dal 1346 “le armi da fuoco furono ancora per oltre due secoli escluse dalle rappresentazioni pittoriche delle battaglie”, era destinata nel tempo ad accentuare la stanchezza di modelli ormai “ripetuti fino allo stucchevole, a battaglie che nel Settecento sembra sollevino polvere di cipria, tanto sono manierate nella composizione, tanto sono svigorite nel colore. Ci vorrà la rivoluzione e il turbine di Napoleone per tentare i pittori a scender di nuovo in campo per ritrarre il tumulto, la morte e forse la gloria”. E sarà proprio la fine del XVIII secolo che, quasi a rinnovare le norme per la pittura di battaglie, Francesco Milizia osserverà nel suo Dizionario che “Gli artisti ricavano quelle scene d’orrore dalle storie, dalle poesie, da’ romanzi; ma né romanzieri, né poeti, né storici, né pittori hanno veduto battaglie; e gli spettatori che neppure ne hanno viste ammirano quelle scene pittoresche. Basta che il sangue che vi si versi a torrenti, che vi sieno confusioni, movimenti, ferite orrende, cadute, convulsioni, crudeltà, barbarie, spaventi, intrepidezze incredibili. Non importa poi, che masse di rosso e di giallo sieno gettate a caso per rassembrar il fuoco del cannone e della moschetteria, ciò è niente; che i cavalli non sieno cavalli, ma bestie chimeriche; che i combattenti non sieno più uomini e che tanti altri oggetti sieno indicati per segni, come se la pittura fosse un’arte di geroglifici. “Chi ha vocazione per le battaglie, vada a vederle con sangue freddo, le osservi attentamente e poi le dipinga. Se questa maniera di studiare non gli accomoda, studi almeno l’anatomia degli uomini e delle bestie, e nel fuoco dell’azione non perda di vista i principii del disegno, del colorito, della vera armonia. “Su questi inviolabili principi sono le battaglie e trionfi di Raffaello, di Giulio Romano e le Brun benchè tutto il resto venga non dalla natura ma dall’immaginazione”.

Ma gli sviluppi della pittura di battaglie non passeranno solo attraverso l’osservazione e l’evoluzione dei modelli: “oltre all’approccio mitico degli antichi pittori”, Mario Praz rileva che “c’era un’altra possibilità: l’approccio realistico e psicologico. Ed è qui appunto la novità della pittura storica di David e della sua scuola. Ivi l’eroe agisce non come una forza fisica ma come una forza etica (…) Alla superiorità distante degli eroi barocchi è sottentrata la simpatia umana”. Tuttavia, rivoluzione francese ed epopea napoleonica poi, continueranno a ricorrere ininterrottamente all’antico, tanto da indurre l’aedo ufficiale dell’Impero, Jacques-Louis David, a vantarsi di aver fatto indossare ai protagonisti de Le Sabine, costumi dipinti “con tanta esattezza che, se i Greci e i Romani avessero potuto vedere il quadro, non mi avrebbero trovato estraneo ai loro usi”. Ma, attenzione alle date: proprio nel 1814, anno fatale che vede David concludere la grande tela neoclassica: Leonida alle Termopili, davanti alla quale prima dell’abdicazione Napoleone farà appena in tempo a congratularsi, dichiarando che l’opera avrebbe meritato di venire riprodotta e attaccata sui muri delle accademie militari per inculcare ai giovani allievi lo spirito del sacrificio marziale, nella vicina Spagna Francisco Goya imprime una svolta decisiva alla pittura di storia, con Il 3 maggio 1808: la fucilazione degli insorti, capolavoro del realismo contemporaneo dal quale l’iconografia di guerra non potrà più prescindere. Non a caso, quattro anni più tardi Théodore Géricault, allievo di un discepolo di David, ‘varerà’ la sua Zattera della Medusa, opera emblematicamente ispirata alla cronaca di un naufragio, “fondata su una materia pittorica che si fa carne e sangue” e su “un disegnato che si torce e si contrae, in forme dense, modellate da grandi piani d’ombra e da grandi piani di luce, che sembra di vedere semplificarsi sotto il raggio concentrato di una lampada come in Daumier”, ma che, soprattutto, segnerà la crisi del Neo-classicismo, ribaltando la concezione stessa della storia con l’opporre all’apoteosi dell’eroismo, la tragedia della sconfitta.

L’opera, nella quale Jules Michelet ha voluto leggere il simbolo della patria alla deriva dopo il crollo di Napoleone: “su quella zattera imbarcò la Francia intera, tutta la nostra società”, influenzerà profondamente uno dei massimi esponenti del Romanticismo, Eugéne Delacroix che, nel 1830, dichiarerà al fratello: “Ho cominciato un tema moderno, una barricata…”. “Come nella zattera”, infatti, il piano di posa della sua grande allegoria: Il 28 luglio, la Libertà che guida il popolo “è instabile, fatto di travi sconnesse (la barricata); e da questa instabilità nasce e si sviluppa in crescendo il movimento della composizione. Come nella zattera, le figure formano una massa saliente, che culmina in una persona che agita qualcosa: là un cencio, qui una bandiera. Come nella zattera, in primo piano ci sono i morti riversi, simili anche nelle positure”. Momento di partecipazione alla vita contemporanea, che rompe con l’antico per creare la prima opera politica, La Libertà rinnova lo schema aulico, attraversando e illuminando di bagliori il percorso che, dal celebrato allievo di David: Antoine Jean Gros a Sir William Allen, dal citato West a John-Singleton Copley, conduce alla nascita della moderna pittura di guerra. A questi modelli, tra i quali si colloca d’autorità anche l’opera di Honoré Daumier, guarderanno con esiti diversi, anche gli incisori e gli illustratori di guerra: da Horace Vernet a Nicolas Charlet, da Denis Auguste Raffet a Ernest Meissonier, e i pittori della generazione successiva, da Isidore Alexandre Pils a Adolphe Yvon, da Hans Makart a Michael Munkacsy, fino ai nostri Giovanni Fattori, Girolamo Induno, Sebastiano De Albertis o Quinto Cenni, attivi nella seconda metà dell’Ottocento, e che, con la loro opera, contribuiranno a fissare quegli schemi ai quali si ispirerà l’insieme della produzione iconografica europea generata dall’esplosione del primo conflitto mondiale. Vedremo anche, come la pittura di guerra, nel percorrere le strade divergenti, ma continuamente intrecciate, della simbolizzazione allegorica, della deformazione espressionista e di un realismo spesso coincidente con il bozzettismo, finirà per calarsi in quella produzione effimera e di consumo rappresentata dell’illustrazione di libri, opuscoli, cartoline e manifesti; la più popolare, quella cui la forza del numero conferirà maggiore resistenza e una circolazione così intensa da saturare l’universo iconografico della grande guerra. Debitrice all’iconografia dei trionfi, nella prima categoria si collocano tutte quelle immagini commemorative, celebrative e di edificazione, destinate ad amplificare, con una grafica stentorea e ridondante, le metafore connesse alla glorificazione delle virtù dell’abnegazione, del coraggio e dell’eroismo, frequentemente dominate dall’apparizione di una figura femminile, dal simbolismo intercambiabile: Patria, Madre, Libertà, Gloria o Vittoria che, smesse le vesti discinte e il berretto frigio della Libertà barricadera di Delacroix, nell’iconografia bellica nostrana, assumerà le sembianze pompières di un’Italia turrita in peplo, in vestibus albis o drappeggiata nel tricolore, in uno stereotipo stilistico che coniuga la nobiltà classica al rapinoso decorativismo dell’iconografia della fiaba. L’apparizione, infatti, di quelle caste, statuarie e prosperose fate che, contro le accese tinte degli sfondi, “affermano l’evidenza della loro eccellente salute, con la prorompente fisicità delle réclames medicinali degli elisir di lunga vita, sommando una gestualità eloquente, solenne e ammonitrice da maestrine di scuola, all’ineludibile stile delle allegorie femminili del Ballo Excelsior, replica quel motivo soprannaturale dell’apparizione, specialmente debitore agli schemi dell’arte cristiana.

A questa categoria pertiene l’osservanza scupolosamente realistica della dignità dei grandi politici e militari, araldicamente individuati attraverso il “decoro” delle relative uniformi: “Più ‘formale’ è l’occasione, più l’accento è posto sulla conservazione delle forme, sia nel significato istituzionale che in quello visivo del termine (….) L’uniformità accresce la formalità esaltando la simmetria e l’accentuazione. Fa sì che l’individuo si fonda con il pattern e pertanto contribuisce all’accentuazione speciale del personaggio al centro del palcoscenico, il cui abbigliamento è unico e di speciale splendore”. Nella seconda categoria rientra tutta la produzione satirica, la prevalenza delle immagini di propaganda finalizzate alla demonizzazione di un nemico raffigurato sempre come disumano e diverso, in una retorica iconografica “ che individua nell’opposizione noi/loro un credo tramandato da millenni di arte figurativa”: la deformazione del nemico essendo “uno dei primi risultati dello stato di guerra: contraffazione politica e militare, stravolgimento dei suoi moventi e fini, negazione della sua umanità, esclusione dei limiti stessi della natura umana, riduzione a tratti animaleschi e subumani”, e infine, tutte le immagini figlie di quegli ‘orrori’ e di quei ‘disastri’ che da Callot a Goya, hanno incessantemente levato la loro voce contro la guerra, e il cui registro espressivo, da Steinlen a Hermann Paul, da Roubille a Galantara, da Raemackers alla Kollwitz, da Viani a Grosz, sarà tragicamente amplificato nel 1915-18 dall’urgenza della denuncia. Caratterizzate da un elevato tasso narrativo che non consente scansioni di lettura, ma che deve concentrare il ‘racconto’ in un’unica immagine: copertina, vignetta, cartolina, manifesto; la ‘guerra delle figure’ consuma nella terza categoria, quella del realismo, la prevalenza delle immagini di propaganda che, ormai passate attraverso l’esperienza dell’obbiettivo fotografico e del nascente mezzo cinematografico, documentano esemplarmente i molteplici aspetti del debito che la moderna pittura di guerra ha contratto con la fotografia. Come ‘l’antico’, perennemente rivisitato, saccheggiato e colonizzato dall’iconografia, anche l’’altrove’ esotico del fronte bellico si presterà a venire conquistato e fissato dall’obiettivo, offrendo prede antropologicamente analoghe a quelle catturate dal pennello degli orientalisti. “Come strumento di propaganda la fotografia non aveva chi potesse uguagliarla. I primi tentativi di reportage fotografico risalgono a poco dopo la comparsa della nuova arte: e già un decennio più tardi, quando arrivarono in Europa le stupefacenti immagini di Roger Fenton sulla guerra di Crimea (1855). E subito dopo il 1860, quando apparvero le fotografie di Mathew Brady sulla guerra civile americana, non vi furono più dubbi sulle grandi possibilità della fotografia”. Proiezioni del ricorrente sogno maschile di eroismo e sopraffazione, la pittura di guerra ‘simula’ adottando specifiche strategie raffigurative e impiegando modelli che, anche nella massima enfasi documentale, prima della soglia del XX secolo, non assumeranno mai quegli accenti di terribilità, cui la obbligheranno le mutate tecniche belliche.

Così, la crudezza della guerra, che nelle immagini di denuncia è documentata in tutta la sua bestiale oscenità, in quelle di propaganda, perpetua il decoro di modelli sperimentati, celandosi dietro una sorta di ‘rispettabilità iconica’. “Di regola, tutti i cartelloni di guerra di tutti i paesi belligeranti ignoravano il lato orrendo”, era infatti “una caratteristica generale del manifesto la riluttanza a rappresentare dei particolari veristi della guerra”. Destinata al fronte interno, nel corso dei logoranti mesi di battaglia e soprattutto dopo la disfatta di Caporetto, l’immagine di propaganda, comincia tuttavia a denunciare un’inquietudine che affiora sempre più frequentemente. I gruppi solenni e magniloquenti dell’epopea bellica risorgimentale, emergono dal bagno di fango, fuoco e sangue delle trincee della grande guerra, con una consapevolezza nuova. Il pennello mentre ancora, media gli indicibili orrori della realtà, edulcora e metaforizza la fede – ormai vacillante – in una vittoria che appare sempre più lontana, ma qualche cosa si è ormai irreversibilmente insinuata a contaminare l’immagine della ‘bella guerra’.

Iconografia dei Prestiti nazionali

L’insieme delle figure commissionate dai principali istituti di credito chiamati a cooperare alla propaganda di Stato, che concorsero a divulgare i Prestiti nazionali di guerra, presenta caratteristiche contrastanti. Non a caso l’immaginario visivo del conflitto sarà dominato dall’ipnotica figura del fante che balza fuori dalla trincea proclamando: Fate tutti il vostro dovere!, dipinto da Achille Luciano Mauzan (Gap/Francia, 1883-1952) per il IV Prestito del 1917 e che, metà citazione e metà invenzione, del rivisitare il poilu di Abel Faivre, riassume ed evoca i popolari manifesti apparsi dal 1915 al 1920, dai quali una varietà di personaggi incita all’arruolamento puntando l’indice contro l’osservatore. Dal soldato in elmetto dell’Auch Du sollst beitreten zur Reichswehr di anonimo tedesco, al Lord Kitchener del Your country needs You dell’inglese Alfred Leete, dallo zio Sam dell’I want You for U. S. Army dell’americano James Montgomery Flagg al militare del Tu! Non ti sei ancora arruolato come volontario?, del russo Moor (D. S. Orloff), “ma rispetto ad essi la novità del cartellone di Mauzan è data in modo di sentire e rappresentare il combattente, caratterizzandone l’espressione ma non i lineamenti così da renderlo identificabile con ogni altro uomo in divisa di quei giorni e non solamente di quelli, costruendolo con la stessa scura materia della trincea dalla quale si rivolge verso tutti quegli italiani, (….); li guarda negli occhi uno per uno, punta l’indice verso di loro, li chiama alla propria parte di responsabilità, di impegno e di sacrificio nel dramma nazionale del conflitto”. E quasi a sottolineare la diversità della richiesta, a differenza dei manifesti di reclutamento citati, il fante di Mauzan, che impugna il fucile con la destra, punta l’indice sinistro.

Vale la pena di insistere sulla ventura di questo manifesto che si identificherà con l’immagine stessa della guerra. Oltre a venire replicato dall’artista in una versione che ne esalta l’ipnotica tensione espressiva con una ‘zoomata’ sul mezzo busto, suggerì al Credito Italiano una grandiosa estensione dell’iniziativa pubblicitaria in forma di manifesti giganti di entrambe le versioni. “Il primo” ricorda Guido Rubetti “che misura da ben trenta metri quadrati: è, senza dubbio, il più grande che sia mai stato fatto non solo in Italia, ma in tutta l’Europa. La testa del soldato è lunga press’a poco tre metri; la figura, nel suo insieme, circa ventiquattro. Vere squadre di operai vi hanno faticato su giorno e notte; e per la vastità del lavoro da compiere e per la rapidità, necessaria in tal caso, della esecuzione. Nove soli giorni di tempo! I lapis litografici per il trasporto sulle pietre furon fatti fabbricare apposta, ed eran grossi quasi tre centimetri; mentre quelli usuali non superano al massimo il mezzo centimetro. Occorse, per le graduali sovrapposizioni di colore, la bellezza di cinquantaquattro lastre; ossia centosessantadue metri quadrati di disegno, giacchè ogni singola lastra era precisamente di tre metri quadri. Ciascun cartellone richiese cinquecento grammi di colore; e il cartellone stesso, nel suo insieme, pesava tre chilogrammi. E, per il trasporto sulle lastre dei colori, infine, il disegno originale dovette essere eseguito su carte appositamente preparate e sovrapposte a parete granita, allo scopo di ottener l’impressione precisa di una grossa grana di carta da disegno gigantesca. Bellissimo!”. Quel titanico ‘incitamento murale’ costituito dalla scalata del fante di Mauzan sugli edifici delle principali città italiane, non avrebbe mancato di dare i suoi frutti, raggiungendo una popolarità che ne giustifica le infinite citazioni iconografiche e il tormentone delle tante parodie caricaturali. A integrazione di quelle ricordate da Rubetti e da Grego, - dalla litografia di Aldo Mazza con il bambino che mima il gesto del fante, alla statuina di Peko (Pier Renato Pegoraro, Vicenza? – Milano 1948), dalla locandina umoristica dalla quale un militare saluta domandando: Scusi…ha sottoscritto al Prestito Lei?, alla parodia al femminile di Luciano Ramo su “Il Cestino da viaggio”, dalle caricature sul “Capitan Fracassa” alle vignette sul “Corriere dei Piccoli”, segnaliamo: la caricatura di Nasica (Augusto Majani, Budrio 1867 – Buttrio 1959) e la quarta di copertina, apparse sul satirico torinese “Numero” nel 1917.

Anche il cannone – come il famigerato mortaio austriaco 420 del quale si favoleggiò tanto nel dicembre del 1914 gli verrà beffardamente intitolato un popolare satirico fiorentino-, inciderà profondamente sull’immaginario collettivo. Ricorrente nelle vignette e nelle caricature pubblicate in appoggio ai Prestiti, troneggiante su sacchi di denaro-munizioni nella copertina di Filiberto Scarpelli per l’opuscolo di Vamba: Il segreto della Vittoria edito per il III Prestito del 1916, la sua metafora ispirerà l’unico manifesto in grado di competere con il fante mauzaniano. Realizzato da Girus (Giuseppe Russo, Catanzaro 1888 – Roma 1860) per il IV Prestito del 1917: Date denaro per la Vittoria: la vittoria è la pace, opera una potente trasformazione alchemico-cromatica dove, il rosso del cielo e il bianco delle montagne, vengono tagliati trasversalmente dal fusto proteso di un cannone verde che, mostro metallico di una botanica guerriera, sembra nascere e trarre linfa vitale dal giallo dell’oro sul quale affondano i suoi cingoli-radici. E saranno proprio l’oro e il piombo richiamati dal bellissimo titolo di questa mostra a costituire la felice sintesi dei due temi dominanti dell’iconografia dei Prestiti di guerra. Dall’oro, che scorre a fiumi in tante immagini e che nell’Italia rurale del primo quinto di secolo ancora ricalca gli schemi dell’iconografia del ‘tesoro’, al piombo delle munizioni in cui è destinato a trasformarsi, fino all’altro grande protagonista della propaganda bellica che sarà appunto il piombo tipografico. Infatti, la ‘guerra delle figure’ non si combatterà solo sui muri. L’Italia verrà inondata di francobolli, calendarietti, cartoline illustrate, opuscoli, numeri unici, locandine, pieghevoli, avvisi e cartelli “ammiccanti da ogni vetrina di negozio, appesi ovunque – nei treni, nei trams, nei Caffè, negli Alberghi, negli Studi -; e dalla pioggia di manifestini più modesti – milioni e milioni – che suadevano anche i non doviziosi ad acquistare almeno una cartella”. Tuttavia il sistematico, diversificato salasso a cui fu sottoposta ogni categoria di cittadini, individuati di volta in volta per censo, per professione, per età, per sesso – verranno infranti i salvadanai dei bambini e si farà ogni sorta di appello al tradizionale spirito di sacrificio delle donne -, cominciò a coinvolgere gli artisti solo a partire dalla campagna per il III Prestito.

Per inquadrare, di seguito, la vicenda dei Prestiti, ci atterremo alla periodizzazione assunta, dalla prevalenza degli autori. Escluso quindi il cosiddetto Prestito della Neutralità del 1914 e il I e II Prestito, emessi rispettivamente nel gennaio e luglio 1915 che in ambito iconico sono irrilevanti, sarà, come si è detto, solo con il III Prestito del gennaio 1916 che, diversificando i media degli appelli in: manifesti, cartoline, inserzioni illustrate ed opuscoli, si comincerà a riconoscere l’efficacia delle immagini nella propaganda. Tentativo ancora debole e disorganico che vedrà, accanto alla riproduzione diffusa dalla Banca d’Italia del quadro: Restauratio aerarii di Giuseppe Sciuti – poi ripreso caricaturalmente da Senio (Giuseppe Sciti, Bagnacavallo 1871 – Roma 1954) nella cartolina Così Roma vinse! -, la convenzionale Patria allegorica di Ugo Finozzi (Firenze 1874 – Roma 1932) al centro di un manifesto per la stessa banca e i due manifesti in sequenza di Aldo Mazza (Milano 1880 – Gavirate 1964) per il Credito Italiano. Nel primo, il raccolto vigore dell’alpino che scrive a casa, infonde una tale solennità alle parole: I vostri risparmi impiegateli nel Prestito Nazionale…. , da indurre, nel secondo, dove la vena caricaturale di Mazza si palesa forse con troppa prepotenza, i vecchi genitori a dichiarare davanti alla cartella del prestito, sormontata dalla foto del figlio lontano: Per il nostro interesse, per lui, per la Patria! Ma la vera novità del III Prestito, saranno gli opuscoli di propaganda che, in alternativa alla fulminea e violenta comunicazione ‘forte’ del messaggio cartellonistico, favoriscono la ‘durata’ di una penetrazione più raccolta e meditata. E se nel citato Il segreto della Vittoria, le 17 vignette di Filiberto Scarpelli (Napoli 1870 - Roma 1933) scandiscono la loro narrazione in altrettante metafore iconografiche che hanno la stessa concentrazione simbolica dei culs-de-lampe, quelle, sempre in nero al tratto, di Antonio Rubino (San Remo 1880 – Bajardo 1964) per lo sviluppo della ricchezza d’Italia (in copertina l’alpino di Mazza), impiegano la nitida frontalità delle immagini da enciclopedia e lo schematismo minuzioso fino all’esornativo di quegli originali diagrammi pittografici che l’artista aveva felicemente sperimentato sulle pagine de “La Lettura” dal 1909 al 1915. Al nome augurale della Vittoria, nel febbraio 1917 si apre l’associazione al IV Prestito, quello iconograficamente più ricco, e nel corso del quale le strategie di propaganda hanno ormai raggiunto l’efficacia e la consapevolezza teorizzate da Emilio Grego, nel rispetto di tutti gli elementi che devono contraddistinguere una campagna d’emissione, che deve essere: a) Idonea e razionale, b) Formalmente suggestiva, c) Sufficiente come massa (ovvero raggiungere un elevato coefficiente di energia di diffusione).

Caratterizzata dalla mobilitazione di un elevato numero di artisti provenienti dalle più disparate esperienze, il IV Prestito, nell’affiancare esordienti a pittori già affermati, integrerà gli sperimentati veicoli del manifesto, dell’opuscolo e della cartolina illustrata, con un più funzionale e mirato impiego della caricatura, ‘inventerà’ – come si è visto – i manifesti giganti, la propaganda tridimensionale delle statuine di Peko, nonché veri e propri elementi di arredo urbano, come i quattro grandi pannelli simbolici: Dare con forza, Dare con Gioia, Dare con Sacrificio e Dare con Fede, dipinti da Amos Nattini (Genova 1892 – Roma 1958) ed Enzo Bifoli, a decorare il ponte monumentale di via XX Settembre a Genova. Accanto a quelli di Mauzan e di Girus, verranno realizzati almeno una ventina di manifesti d’autore. Tre di A. Barchi per la Banca Commerciale Italiana: da Aiutateci a vincere! con le silhouette di combattenti ritagliate contro il cielo azzurro al sommo di un crinale, al fante scapigliato che emerge con il dito puntato da uno sfondo di fuoco evocando quello di Mauzan: Aiutateci a vincere!, fino alla nera teoria di alpini-pollicini che risalgono la montagna lasciando sulla neve la labile quanto ineludibile traccia: Sottoscrivete. Due di Ugo Finozzi – visibilmente più a suo agio con la matita che con il pennello – raffiguranti un soldato con il pugnale che scolpisce sulla roccia la frase: Sottoscrivete al Prestito e un altro appollaiato in precario equilibrio – peso del fondoschiena? – su un tronco dal quale prende la mira, nella certezza che: Ogni colpo è un passo verso la pace…, per la Banca d’Italia. Alla dolente maschera della donna in lutto di Aldo Bruno (Aldo de Luca) che si torce le mani: Per i nostri cari! Sottoscrivete, corrisponde il quaresimale registro della bambina che, macilento Cappuccetto Rosso tra le braccia del fantaccino, offre il suo salvadanaio in: Date denaro per la Vittoria… di Enrico Lionne (Enrico della Leonessa, Napoli 1865 -1921), per la Banca Italiana di Sconto. Sempre al tema del soldato che incita il figlio a donare i suoi risparmi, si ispira Aurelio Craffonara (Gallarate 1875 – Genova 1945), nel più morbido ed efficace: Arma dat aurum. Arma dant pacem… Porta il tuo salvadanaio perché papà ritorni vincitore, per il Banco di Roma. Mentre il ricorrente motivo dell’Italia che impugna la Vittoria alata: Tutti sanno che sono in gioco la sicurezza e l’onore, di Mario Borgoni (Pesaro 1896), si colloca nella categoria della simbolizzazione allegorica, Prestito per la Vittoria. Operai sottoscrivete, monocromo sui toni di giallo di Giovanni Greppi (Milano 1844 – 1960), si ricollega al verismo di quelle immagini di denuncia che cominciavano a circolare con sempre maggiore frequenza in Belgio e in Francia. Di una splendida variazione in chiave eroica sul prediletto tema dell’incudine, qui trasfigurata in ara fiammeggiante sotto la cascata di monete d’oro, è infine autore Duilio Cambellotti (Roma 1876 – 1960) per il Comitato Nazionale Munizionamento.

Numerosi anche gli opuscoli. Dal Venne il dì nostro e vincere bisogna con dimesse e contestate illustrazioni di Silvio Talman (Trento 1879 – Saluggia 1972) che, nell’edizione di lusso di Bertieri e Vanzetti per il Credito Italiano, verranno sostituite dalle potenti visioni simboliche di Cambellotti che propongono con soluzioni sempre nuove i perenni motivi dell’incudine e del cannone, a Per i nostri figli. Per le nostre case. Per la Vittoria che, sotto una copertina che replica i due vecchi di Mauzan, alterna ‘tacitiani’ appelli al Prestito a illustrazioni di Aroldo Bonzagni, Riccardo Galli, Enrico Sacchetti, Luigi Bompard, Silvio Talman. Dall’opuscolo: I Prestiti pubblici… di L.A. Cervetto, con schizzi raffiguranti vedute e monumenti genovesi di Plinio Codognato (Verona 1878 – Milano 1940). A La Grida, con le suggestive xilografie di Antonio Giuseppe Santagata (Genova 1888) edito dalla sede genovese del Banco di Roma, fino allo spartito P’ ‘a patria e pe’ tte, versi di L. Bovio e musica di R. Falvo, edito a Napoli per la Banca Commerciale, copertina e vignetta di Pietro Scappetta (Amalfi 1863 – Napoli 1920). E ancora, dall’articolata serie di interventi sulla stampa periodica, vanno menzionati la poesia di Trilussa, Er bijetto da mille illustrata da Gustavino (Gustavo Rosso) su “Il Caffaro”, le caricature di Carlo Bisi, Nasica e Golia su “Numero”, ma soprattutto le copertine di Sacchetti per “Il Secolo Illustrato”, sul quale apparirà anche una pagina di propaganda con vignette di Enrico Toddi (Pier Silvio Rivetta), Adelina Zandrino, Paul Iribe e lo stesso Dudovich, e quella per “La Donna” che riproduce l’illustrazione realizzata da Mauzan per La grande ora di Luigi Orsini. Né mancheranno le note umoristiche: dall’albumetto ‘paroliberista’ di Edoardo Alfano, nel quale, mentre si inneggia al Prestito, si accusa di plagio una delle illustrazioni di Talman, alle irresistibili parodie caricaturali dei principali manifesti circolanti: “saporoso e spesso non ingiusto commento”, che Luciano Ramo (Napoli 1886 – Milano 1959) disegnò per “Il Cestino da viaggio”. Destinato infine a moltiplicare l’eco degli appelli, il profluvio di cartoline diffuse dai vari istituti di credito, riproducenti i soggetti dei principali manifesti o nuove composizioni affidate, magari occasionalmente, ad artisti affermati. Oltre alla serie delle 10 franchigie di Finozzi raffiguranti i corpi militari e i due ‘nemici’ fissati dall’acido pennello di Sacchetti, ricordiamo, accanto alle modeste allegorie di A. Petroni, la patria isolata dalle fiamme dall’onda della bandiera di Aleardo Terzi (Palermo 1870 – Castelletto Ticino 1943), la madre protesa nell’abbraccio ai bambini di Leopoldo Metlicovitz (Trieste 1868 – Pontelambro 1944) per l’Istituto Nazionale delle Assicurazioni, la crocerossina di Carlo Coppedé (Firenze 1868) per il Monte dei Paschi di Siena, e il registro caricaturalmente anticipatore delle composizioni del futurista Luigi Daniele Crespi per la Banca Italiana di Sconto. Nell’ottobre 1917, il titolo della Vittoria, sotto il quale, meno di otto mesi prima, era stato battezzato il Prestito, risuonerà tragicamente ironico. Il ricorso “a forme nuove di conquista del consenso” che dopo la rotta di Caporetto, appaiono inventate sotto l’incalzare degli eventi militari, “traggono in realtà contenuto programmatico e strumenti di attuazione dalle già consolidate strutture dell’assistenza civile. Non a caso, il fenomeno più significativo delle strategie messe in atto per rimotivare l’esausto esercito superstite e dare nuovo impulso a una propaganda ormai logora, sarà la fioritura dei coloratissimi fogli di trincea destinati al fronte.

Emesso nel gennaio-marzo 1918, il V Prestito, che non poteva intitolarsi altro che alla Liberazione, deve misurarsi con la tragedia della disfatta. Alla parola d’ordine: “resistere”, i toni letterari e iconografici si alzano sonoramente, l0diata effige del nemico viene evocata con sempre maggiore frequenza, mentre l’esperienza del dolore intride ormai tutte le immagini. Quattro manifesti realizzati da Mario Borgoni dal 1917 al 1920, possono venire esemplarmente assunti come altrettante stazioni che scandiscono i principali eventi bellici: dalla retorica Italia con la Vittoria alata del IV Prestito al fante ferito che stringe al petto la bandiera e impugna la spada in un estremo anelito di resistenza del V, dalla Libertà armata che emerge dai rovi della guerra, al Finalmente! Dell’operaio di spalle che ‘saluta’ il lavoro togliendosi il berretto contro le ciminiere che ricominciano a fumare del VI. La mesta teoria dei feriti e mutilati inaugurata da Borgoni, si allunga con il fante zoppo di Aroldo Bonzaghi (Cento 1887- Milano 1918) e il soldato cieco (chi non ricorda le innumerevoli cronache sul ‘martirio’ dello scrittore Carlo Delcroix che aveva perso le mani e la vista in una azione di sminamento nel marzo 1917?) di Alfredo Ortelli. Le superstiti visioni allegoriche di F. Ballester, G. Colantuoni e dell’infaticabile Mauzan: E nostro torni quel che fu già nostro!... verranno incalzate e presto cancellate da immagini che denunciano sempre più crudamente la realtà di quasi tre anni di guerra. Lacrimose protagoniste del nuovo manifesto di Giovanni Greppi – quasi un pendant in versione verdastra di quello per il IV Prestito -, vedove e madri procedono contro uno sfondo di operai e opifici, guidate da un militare che dichiara: A me resistere a tutti sottoscrivere, mentre una pittura vischiosa e monocroma, raggela le due orfane di Maria Vinca al sommo di una pietra tombale: Nostro Padre ha dato la vita. Voi non negherete il denaro.Sottoscrivete!... lungo la quale colano drappi e capelli. Sempre al tema dell’assenza si ispira il corposo schizzo verticale di Enrico Sacchetti (Roma 1887 – Settignano 1967) del manifesto: Pel ritorno vittorioso sottoscrivete al Prestito!, nel quale una contadina con due bimbetti al fianco, si erge in controluce a scrutare l’orizzonte facendosi schermo con la mano, in un estremo saluto militare che sembra escludere la speranza. Più determinata e sanguigna, la contadina di Ugo Finozzi che, stringendo un neonato con la destra, allunga la sinistra ad incitare con un sonoro: Cacciali via!, un bellicoso fante-marito a baionetta sguainata. Che emana già un vago odore di sansepolcrismo.

La terza contadina infine, al grido: Fratelli salvatemi. Sottoscrivete, stringe un bambino al seno dibattendosi fra tre soldati nemici, raffigurati in tutta la loro bestiale brutalità nella cartolina di Aroldo Bonzagni. Puntualmente evocato da Achille Beltrame (Arzignano 1871 – Milano 1945), il liberatore italiano si slancia contro il nemico, in un corpo a corpo che è quasi una ‘istantanea’, nelle cartoline: Fuori i barbari… E' dipinto proprio come un barbaro, in elmo alato e clava ferrata, a rendere comicamente difficile qualsiasi opzione fra ‘civiltà’ e ‘barbarie’, nel manifesto: Sottoscrivete al Prestito di Giovanni Capranesi (Roma 1852 -1921), l’avanzata dell’eterno nemico viene contrastata dal bando di un’Italia turrita. Simboleggiato da una gigantesca mano le cui dita tentacolari si allungano rapacemente verso il Piave, il motivo del gigante nemico al quale, novello Davide, si oppone il piccolo fante nel manifesto di Mauzan: Per la liberazione sottoscrivete, viene replicato da Giuseppe Palanti (Milano 1881 – 1946) nella cartolina del Comitato d’azione tra mutilati, con un ferito che solleva una pietra a schiacciare il mostro che allunga un ripugnante artiglio sull’Italia. Contro il nemico dai mille volti, con bell’effetto bicolore di silhouettes ritagliate in negativo, si avventano la cavalleria e i mitraglieri del manifesto: Date il vostro denaro per cacciare il nemico dall’Italia di Augusto Sezanne (Firenze 1856 – Venezia 1935), i fanti guidati da un’evanescente Italia nella cartolina di Mazza, e i quattro soldati di diverse nazionalità che, levando i fucili a fascio a rivisitare David in un ‘giuramento’ di alleanza fra i popoli – che sembra affidare alle forze alleate l’estrema speranza di vittoria – Marcello Dudovich (Trieste 1878 – Milano 1962) raffigura nel manifesto: Per la Libertà e la Civiltà del Mondo. Anche il V Prestito farà ampio ricorso a fogli volanti, pieghevoli ed opuscoli. Da Il cuore e il portafoglio illustrato da Scarpelli a Perché resistere? Di P.C. Rinaudo Deville, illustrato da Golia (Eugenio Colmo, Torino 1885-1967), dall’appello di Stefania Turr: Alle donne d’Italia, sulla cui copertina, come la Patria allegorica di Colantuoni, la donna-fante in elmetto di Adrì (Adriana Bisi Fabbri, Ferrara1881 – Travedona 1918), ammonisce con la sola carica magnetica dello sguardo, fino a Patria e scuola, le cui illustrazioni rivolte ai bambini, si possono attribuire a Ernesto Bottaro.

E ancora, le Parole a un soldato, illustrato da Giovanni Bonora, il foglio volante con un disegno di Basilio Cascella (Pescara 1860 – Roma 1950) e le circolari per la Banca Commerciale con schizzi di Guido Marussig (Trieste 1885 – Gorizia 1973) e Anselmo Bucci (Fossombrone 1887 – Monza 1955), che metterà il violento espressionismo del suo bianco e nero al servizio delle acciaierie Ilva. Accanto alle cartoline che subirono la censura della distribuzione, tra i fenomeni più singolari al questo Prestito, si segnala la serie di manifesti rimasti inediti che Rubetti documenta con larghezza a convincerci della discutibilità delle scelte operate dalla commissione giudicatrice che, nello scartare a favore delle opere citate, i 29 bozzetti proposti da Bonzagni, Beltrame, Sacchetti, Bucci, Dudovich (poi rielaborato per il VI Prestito), Primo Sinòpico, Aldo Carpi, Luigi Bompard, Emilio Lazzaro, Augusto Camerini, Renzo Ventura e, soprattutto, Leonetto Cappiello e Galileo Chini, si dimostrò scarsamente oculata. Altro elemento significativo del Prestito, che riconduce al vero committente: lo Stato, si può evincere dalla progressiva scomparsa dell’identificazione del nome degli istituti di emissione su manifesti, opuscoli e cartoline. Come testimonia, infine, la prevalenza di una bibliografia che si arresta al biennio 1918-19, la storia del VI Prestito, emesso nel gennaio 1920 e intitolato alla Ricostruzione, è ancora tutta da scrivere. I dati che emergono dall’analisi di questa prima raccolta di materiali sul VI Prestito, indicano ancora nel manifesto e nell’opuscolo i veicoli privilegiati della propaganda. E se nei primi, destinati alla celebrazione della vittoria e all’incitamento al lavoro, si assiste al recupero di schemi abusati, con roboante sfoggio di retorica stilistico-espressiva, sarà affidato ai secondi il gusto di sperimentare scostandosi dalla tradizione. Oltre ai due manifesti citati di Borgoni, inneggiano alla vittoria, alla famiglia e all’operosità redentrice: Il lavoro. Ecco il tuo nuovo dovere! Siglato GB, l’anonima Italia-alveare iscritta in un tabernacolo a bifora su fasci di rose: E lietamente ognuno alla fatica…, l’aulica visione del carro allegorico del Trionfo della Giustizia di Costantino Grondona (Milano 1891-1939) e il ritorno del fante che abbraccia nettamente l’immenso salvadanaio, che le carrucole di una gru stanno facendo planare sull’Italia con la forza e la levità di un pallone aereostatico, di Plinio Codognato (Verona 1878 – Milano 1940). Anticipazione pop-art, la cui suggestione è amplificata dall’effetto divisionista del pointillisme cromolitografico delle terre dorate contro la trasparenza dell’azzurro.

Ad elevare complessivamente il tono, avrebbero egregiamente contribuito i manifesti che Primo Sinòpico (Raoul Chareun, Cagliari 1889 – Milano 1949) aveva elaborato in quella linea di modernità sperimentata negli strepitosi cartelli per le Industrie Italiane Illustrate, e che rimarranno, viceversa, inediti. Dei quattro opuscoli reperiti, non si scosta dalla tradizione di quel decorativismo luttuosamente allegorico che aveva caratterizzato ornamenti e fregi della prevalenza della produzione editoriale bellica, il volumetto: I Proclami illustrato da Giovanbattista Conti (Roma 1878-1970) mentre si collocano fra le più interessanti realizzazioni del VI Prestito, sia La Vanghetta del Fante di Giuseppe Zucca con le vignette a sanguigna e l’incisiva copertina di Cambellotti, che Casa mia. Casa Mia… di Vamba (Luigi Bertelli, Firenze 1858-1920), una delle ultime opere pupazzettate dall’Autore che si sbizzarrisce in una serie di giocose variazioni intorno alla geniale metafora iconografica della casa-Italia, apparso su “Il giornalino della Domenica” del gennaio 1920. Infine, proprio all’autore del pluricitato studio di ‘psicologia applicata’ al lancio dei Prestiti di guerra: Emilio Grego, si deve: La rugiada d’argento, ‘favola commentata’, della quale non è stato identificato l’illustratore, edita per il Consorzio Bancario, da quella LIM, L’Impresa Moderna di Milano, che ebbe parte così attiva nelle vicende dei Prestiti. E, per concludere, va rilevato anche come si mobilitò l’editoria che, dalla fiorentina Arte della Stampa di Salvatore Landi ai citati Bertieri e Vanzetti, da Alfieri e Lacroix, all’Istituto Italiano di Arti Grafiche di Bergamo, senza dimenticare gli stabilimenti milanesi Ricordi, Pilade Rocco e il napoletano Richter, furono i principali strumenti di una committenza che, fra i tanti Comitati, Associazioni, Consorzi, Federazioni e Banche: dal Banco di Roma alla Banca Italiana di Sconto, dal Credito Bancario alla Banca Commerciale Italiana, vide nel Credito Italiano l’istituto maggiormente attivo nel proporre le iniziative più articolate, originali e che ottennero maggiore popolarità. Con le immagini commissionate per propagandare l’ultimo Prestito del 1920, si conclude la vicenda iconografica dei Prestiti. Vicenda che costituisce solo uno degli aspetti della più ampia storia dell’iconografia di guerra che, dalle campagne napoleoniche ai moti risorgimentali, abbandonata ormai la funzione di ‘genere’, finirà per riassumere la funzione di ‘documento’ proprio nel corso della grande guerra e specialmente nell’ambito esaminato, per evolvere nella duplice direzione di documento-denuncia e documento-propaganda, così da prefigurare a grandi linee, pur tra debiti e imprestiti e con le debite distinzioni, quelli che saranno i caratteri distintivi dell’iconografia della seconda guerra mondiale.

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Paola Pallottino

Testo tratto da L'oro e il piombo - I prestiti nazionali in Italia nella Grande Guerra, Bollettino del Museo del Risorgimento. Bologna, anno XXXVI, 1991. Trascrizione a cura di Lorena Barchetti