Schede
Sono molti i casi in cui è possibile ritrovare nei dipinti salienti scene o noti personaggi di un racconto. Da sempre, anche nelle opere dei pittori dell'Ottocento, la letteratura invade le tele degli artisti e da questa interazione scaturiscono veri e propri capolavori. Accurate ambientazioni, costumi e abitudini vengono riportati nel dettaglio e rendono vive, attraverso il pennello, le innumerevoli e disparate storie narrate. È interessante sapere che avvenne anche il contrario: non dal testo all'opera bensì dall'opera al testo. Accadde così allo scrittore londinese Edward Bulwer-Lytton che fu ispirato, per la scrittura del romanzo storico The Last Days of Pompeii (ed. originale 1834 - ed. italiana 1836), dal dipinto del russo Karl Briulov, esposto a Milano nel 1833. Il dipinto di Briulov Gli ultimi giorni di Pompei (1827-1833) raffigura la tragica eruzione del Vesuvio del 79 d.C. che distrusse le città di Pompei, Ercolano e Stabia. Sembra che, a sua volta, il dipinto sia stato frutto della partecipazione alla rappresentazione teatrale L'ultimo giorno di Pompei dell'amico Giovanni Pacini (1827).
Se andassimo ancora indietro nel tempo si riuscirebbe a trovare la fonte di ogni ispirazione ma, in questo caso, volgiamo lo sguardo verso alcuni artisti bolognesi che, nell'Ottocento, hanno ben saputo rappresentare scene o personaggi letterari. Proprio sulla scia dell'interesse verso Pompei, i cui scavi ebbero inizio sul finire del XVIII secolo per poi protrarsi in diverse campagne archeologiche oltre il XX secolo, gli artisti bolognesi Luigi Serra e Alfonso Savini, realizzarono due diversi dipinti traendo ispirazione proprio dal romanzo di Lytton. Se nell'opera di Briulov il soggetto storico allude all'abbandono al volere dell'Onnipotente, attraverso la riflessione sull'impotenza umana verso la Natura, nella rappresentazione di una scena agitata in cui prevale il tema della catastrofe conclusiva tipicamente romantica, in quella di Alfonso Savini, opera presente anche nella raccolta del Fondo Belluzzi, i protagonisti della tela sono Nydia e Glauco, due giovani personaggi del romanzo storico di Lytton. A Nydia è dato un ruolo importante nell'intera storia. Rapita ancora bambina e portata in Italia, a causa della sua cecità viene venduta come schiava a basso prezzo da una proprietaria di taverna a Pompei, la quale la manda a vendere fiori nella città e la costringe a partecipare alle orge in casa. La ragazza viene, in seguito, acquistata da Glauco del quale ella è segretamente innamorata. Savini partecipa proprio con questa tela all'Esposizione milanese del 1869 e, in quell'anno, sulla rivista settimanale “Illustrazione Universale” anno VI. n. 268, riguardo l'Esposizione di Belle Arti in Brera si legge: “Nel romanzo del Bulwer, Gli ultimi giorni a Pompei, v'ha un episodio in cui la povera cieca Nydia concepisce amore per il ricco ateniense Glauco, amante e riamato da una fortunata patrizia napoletana di nome Jone. Nydia era schiava, e l'affetto ch'ella nutriva per Glauco, avea origine nella gratitudine. Un dì, battuta e maltrattata da un crudele padrone, fu riscattata da Glauco. La voce, la bontà dell'animo, e forse quel che di misterioso che taluni dicono originare l'amore, fecero nascere nel cuore di Nydia pel giovine il più intenso affetto, ma era schiava e cieca, e di più sapeva che altra donna era padrona al cuore di Glauco, per la qual cosa faceva di tutto per nascondere la propria passione, la quale riceveva alimento in quei momenti d'intimità che fra lei e lui succedevano, nei quali il fortunato Greco, inconsapevole delle sofferenze che faceva subire alla cieca, le tenea a lungo parola del suo affetto per Jone. Forse le interne sofferenze stamparono sul volto della schiava le tracce di quanto provava, ma Glauco le attribuiva alla sventura della cecità, ed alla trista condizione di conoscersi schiava, laonde nella gentilezza del suo sentire cercava ogni mezzo per confortarla, e non sapeva che quelle premure del suo buon cuore non facevano che accrescere la passione di Nydia che forse sperava talvolta, e con maggiore dolore ricadeva poscia nella realtà di non poter essere giammai corrisposta”. Lo scopo di Savini era quello di “rappresentare sulla tela Glauco e Nydia in uno di quei momenti di intimità quasi famigliare” in modo da rendere meglio l'effetto desiderato: scelse appunto “quel momento in cui l'illustre romanziere inglese figura che Glauco, di ritorno da un colloquio coll'amante Jone, e caldo ancora delle memorie di quella, incontra nel suo giardino Nydia che spiava il suo giungere per potergli far dono di fiori raccolti”. Il pensiero di Savini legato all'amore è quello di un sentimento in grado di trasformare le persone in ottime e buone e che ci intenerisce riguardo le altrui sventure. “Glauco, chiamata a sé Nydia, e dopo averla fatta sedere d'accanto, la prega di intrecciare con quei fiori una corona. Alla povera schiava sfugge allora dal labbro un accento d'amarezza, perché comprende che dovrà abbellire la fronte di Jone, e Glauco, a cui non sfugge l'amarezza della frase e che l'appone a una meschina invidiuzza di femmina, le perdona dicendole: No, la conserverò; essa mi ricorderà del tuo affetto. E Nydia è felice per un istante! Ecco il momento scelto dall'artista, quello in cui la fanciulla cieca, “che sotto l'impressione della voce di Glauco sospende per un istante il lavoro, volge gli occhi al cielo, al quale chiede solo di amarlo, e non spera che di vivere come schiava presso di lui; il fortunato Glauco che, pago dell'amore della donna che ama, e che poco prima lasciò, prova nell'affetto della fanciulla che ha vicino, quel sentimento più dolce e meno esclusivo che è l'amicizia”. L'amore per Savini è una passione che esalta, l'amicizia è un sentimento frutto dell'abitudine. A queste ultime parole di Savini, sempre sul medesimo articolo, segue la spiegazione legata all'intento artisticamente raggiunto, come dichiara lui stesso, “Mirabilmente!”. Le due figure e specialmente quella di Nydia sono dipinte con moltissima cura e naturalezza. Il colorito della stanza è di un effetto straordinario e denota, nell'egregio pittore, molta maestria nell'adoperare la tavolozza. I colori vivaci sulla tela, dal rosso, al verde, all'azzurro, l'attenzione al particolare raccontato con minuzia verista e ancora la delicatezza e l'eleganza dei protagonisti del racconto, qui chiamati a esprimere i loro contrapposti sentimenti, sono racchiusi su quella tela, venduta all'Esposizione agricola industriale del 1871. Nydia siede sulla pedana, ai piedi del letto su cui è sdraiato il suo amato Glauco. Sembra abbandonarsi all'amore, quello stesso amore disperatamente desiderato e non corrisposto. Abbandonato è lo sguardo, mentre il capo volge al cielo, così come il braccio sinistro la cui mano poggia sulla base della pedana perdendosi tra i fiori sparsi. Bianca è la veste che lascia scorgere la giovane pallida pelle contrapposta al rosso delle pareti, come il candore di un sentimento che la condurrà alla morte. Scampato il tragico evento dell'eruzione, la giovane schiava cieca imbarcandosi riuscirà a salvarsi e lasciare Pompei insieme al suo amato e alla bella Jone ma, certa che non sarà mai corrisposta, porrà fine alla sua vita gettandosi in mare. Una fine tragica quella di Nydia, comune in molti romanzi. Proprio sulla fuga si era concentrato lo scultore Radolph Rogers nel volerla rappresentare nelle vesti di eroina mentre conduce, seppur cieca, i due compagni fuori dalla città in fiamme (1859). E se nel dipinto di Federico Maldarelli Jone e Nydia vengono ritratte insieme, in quello di Luigi Serra prende l'intera scena la figura della bellissima Jone, giovane napoletana originaria della Grecia. Descritta da Lytton come una ragazza di notevole bellezza e fascino la Jone del Serra (1871) - di cui si conosce anche una versione ad acquerello, semplificata e in forma ovale - fu realizzata dal pittore all'età di venticinque anni, eppure possiede già un carattere che lascia intravedere sotto le forme dipinte, la genialità del disegnatore, forse il più grande e originale dell'Ottocento italiano. Il soggetto non è certo banale: la giovane ateniese, sacerdotessa di Iside, innamorata del ricco e giovane connazionale Glauco, poggia la mano sul fianco mentre volge lo sguardo alla sua destra. Imponente e statuaria nella sua posa, ritratta seduta e quasi per intero, Jone è l'unica protagonista della scena caratterizzata da toni terrosi ed esattezza di contorni. Serra la immortala quasi come fosse uno scatto fotografico.
In una particolare scena del film Gli ultimi giorni a Pompei del 1913, diretto da Del Colle e Vidali, restaurato dalla Cineteca del Comune di Bologna e dal Museo Nazionale del Cinema di Torino, il fermo immagine sulla schiava Nydia che tenta di proteggersi dai maltrattamenti inferti, spaventata, seduta sul pavimento con la sua lunga veste bianca, ci avvicina alla posa della protagonista di un dipinto di Giulio Cesare Ferrari, in un altrettanto tragica storia: Esmeralda (1863). Ed è così che veniamo catapultati in un altro romanzo storico appassionante e drammatico: Notre-Dame de Paris di Victor Hugo pubblicato nel 1831. Esmeralda, il cui vero nome è Agnès, nasce a Reims da una prostituta. Rapita, ancora neonata, da alcuni zingari che la crescono come fosse loro figlia, a sedici anni, Esmeralda - chiamata così dalla pietra che portava sempre al collo – raggiunge Parigi, si guadagna da vivere ballando per le strade, suonando il tamburello e facendo eseguire giochi di prestigio alla sua capretta Djali. In molte illustrazioni è in movenze di danzatrice o in compagnia di una capra. In ginocchio, invece, nella bellissima scultura del 1856 realizzata da Antonio Rossetti che la ritrae con il capo chino mentre, ormai stanca, poggia una mano sul suo tamburello e tiene con l'altra Djali. Nel romanzo, la giovane zingara conquista il cuore dell'arcidiacono Frollo che la fa rapire da Quasimodo, il deforme campanaro della Cattedrale di Notre-Dame. L'Esmeralda di Ferrari è spaventata, si trova nella torre di Notre Dame in compagnia della sua fedele capretta, colta nel gesto di scostare i capelli dal viso, indossa una veste bianca e, seduta sul materasso che poggia sul pavimento, sembra ritrarsi e voler scomparire nell'ombra. La bella zingara, nel romanzo di Hugo, è innamorata del capitano degli arcieri reali, Phoebus. Quest'ultimo sarà accoltellato dal geloso Frollo con il pugnale di Esmeralda appositamente usato, per gelosia, al fine di incastrala e farla condannare a morte. Quasimodo, innamorato di lei da quando, subendo una fustigazione, con gentilezza gli offrì dell'acqua, la salverà rapendola ma non avrà mai il coraggio di dichiararsi perché frenato dal suo mostruoso aspetto. Mentre insorgono gli zingari per liberare Esmeralda, lei è salvata da un uomo incappucciato: Frollo. Quest'ultimo le propone di unirsi a lui in cambio della vita. Al suo rifiuto, la giovane viene affidata nelle mani di una donna che odiava gli zingari: sua madre. La donna riconosce Esmeralda e la difende dalle guardie ma la gitana viene condannata al patibolo. Certamente Ferrari ha subito, nella sua bella tela, l'influenza hayeziana sia per l'aspetto tematico sia per alcune soluzioni formali. Esmeralda fu presentata all'Esposizione bolognese della Protettrice nel 1863. Ferrari si era quasi specializzato nella rappresentazione di eroine femminili dando però un'interpretazione patetico sentimentale all'aspetto romantico hayeziano. Il pittore bolognese si muove tra la lezione malatestiana modenese, la novità hayeziana e la tradizione accademica bolognese. Sicuramente la Ruth di Francesco Hayez, commissionata dal bolognese Severino Bonora ed esposta in accademia nel 1853, fu una delle opere che colpì Ferrari. Il pittore bolognese sembra avere già una buona conoscenza dell'evoluzione stilistica di Hayez tanto che nell'Esmeralda possiamo pensare alla Bagnante vista di schiena (1859) forse fonte di ispirazione per l'aspetto fisico (pubblicata nel 1854 in Gemme d'arte italiane) e alla tela Il bacio (1859) da cui sembra presa l'ambientazione, in particolar modo il muro sullo sfondo. L'opera rivela certamente le influenze lombarde ma tra le opere di Hayez che maggiormente danno quel vago ricordo della donna dai capelli scuri, dal fascino seminudo caratterizzato da una veste cadente, vi è la Meditazione del 1851 riprodotta sulla rivista Gemme d'arte Italiane nel 1852. Sulla stessa rivista, in linea con l'aspetto delle donne finora elencate, non è da meno la Figlia di Jefte (pubblicata nel 1860) di Luigi Busi da cui sembra quasi identico il gesto di Esmeralda nello scostare i capelli dal viso. Non è certo da dimenticare che la rivista milanese fu molto importante per gli artisti locali: attraverso le opere pubblicate si potevano conoscere i dipinti e di conseguenza esserne influenzati. Un esempio lo abbiamo avuto d'altronde con lo stesso Busi nell'aver riconosciuto un veliero realizzato su carta per un compito eseguito all'epoca della sua formazione durante il Collegio Venturoli come citazione del Naufragio di Luigi Riccardi. Ulteriore opera letteraria, ispirazione per un dipinto del Ferrari, fu Olimpia abbandonata da Bireno, tratto dall'Orlando Furioso di Ludovico Ariosto. Lo stile di Ferrari è ancorato alle scelte degli anni Cinquanta e questo lo dimostrano le tele rappresentanti Pia de Tolomei - il cui riferimento richiama Dante e l'opera teatrale di Gaetano Donizetti - e Lia, personaggio biblico, sorella di Rachele, nonché personaggio dantesco. Queste ultime tele sono state presentate rispettivamente nel 1881 all'Esposizione Nazionale di Milano e nel 1888 a quella di Bologna.
Nell'elenco del Fondo Belluzzi, alla voce Ferrari, un'ulteriore opera del pittore, ispirata a Donizetti su libretto di Gaetano Rossi (1842), pone come protagonista una donna: Linda di Chamonix. Attorno a Linda ruotano le figure del marchese di Boisfleury innamorato di lei e di Carlo, Visconte di Sirval e nipote del marchese, amante di Linda. Per fuggire alle insidie del marchese, Linda si reca a Parigi con Pierotto. La donna vive in un appartamento che Carlo le ha offerto e si è arricchita, ma viene raggiunta dal marchese che tenta ancora di sedurla, invano. Intanto, il padre di Linda giunge a Parigi per rivedere la figlia, ma non la riconosce nella divenuta ricca signora. Quando Linda si rivela, temendo che abbia perduto il suo onore, Antonio la ripudia. A complicare la situazione è la notizia di Pierotto il quale le comunica che Carlo ha sposato una donna di nobili origini. Linda impazzisce e viene riportata a Chamonix. Venuto a conoscenza dello stato d'animo in cui si trovava la povera Linda, Carlo torna a Chamonix e le comunica spiega che aveva di aver rifiutato le nozze imposte dalla madre. Linda così riacquista la ragione e l'opera si conclude nella felicità generale. Il dipinto di Ferrari, pubblicato in Gemme d'Arte italiane, è accompagnato da uno scritto di L. Toldo il quale racconta come nell’autunno del 1857 furono esposte a Brera due dipinti di giovani bolognesi, che ottennero lode compiuta. I giovani menzionati sono il Guardassoni e il Ferrari: del primo l’Innominato dei Promessi Sposi, del secondo la Linda di Chamounix. Ferrari immaginò la scena romantica in cui Linda che, “smarrito l’intelletto, viene ricondotta alle sue valli dietro il suono della ghironda. Ma il suono è cessato, ed ella si siede stanca ad un sasso lungo la via. Il riposo non le aggiunge lena dappoiché il pensiero in gran tumulto le affatica il cuore, le irretisce le membra. Poco ancora manca al termine del viaggio: lontana è ormai la funesta Parigi con le sue fastose nequizie, col suo frastuono che attuta i rimorsi: l’aria freschissima dell’Alpe nativa, quasi intenda a recarle refrigerio, dolce le spira tra le scomposte chiome. Tutto indarno: il cielo più non torna con la calma ineffabile dell’innocenza ai giorni del primo amore: nessuna cosa intende, nessuna cosa la scuote. Allora Pierotto, sua guida, in atto cortese le si accosta, ritocca le note armonie, ed il pallido volto s’infiora alcun poco: un infocato sospiro le muove in sull’aperta bocca, l’anima si raccoglie agli occhi, e pur non volendo, si arreca a seguire il richiamo. Quanta pietà in sì misero stato! Ne l’orfano compagno le si può prestare a conforto, persuaso quant’essa che Carlo l’abbia tradita per più vistose nozze; ma chi conosce il filo degli avvenimenti, ben di cuore le sussurrerebbe all’orecchio: sorgi! oh! sorgi, fanciulla: il tuo Carlo ti è fido, t’ama, rivola in tua traccia. Anche il delirio è un sogno quaggiù: solo vive l’eterno amore. Sorgi ché ti aspetta l’estasi di un bacio, che udrà senza arrossire il tuo Angiol Custode. Quà la fiducia della vergine a cui bella soltanto nell’amore parve la vita, e vi si abbandona come fiore in onde non soggette a burrasca. Né folle è la sua fiducia, mentre da un lato alla semplice sua intelligenza manca quel tocco di malizia che al mondo toglie titolo di prudenza, e serve a schermo o ad apparecchio di seduzione: dall’altro un destino palesemente propizio sembrava di grado in grado accompagnarla sin presso le porte della felicità. A un tratto, ecco l’onda si è mossa in bufera: sparvero i giardini beati e il destino sull’ara stessa di nozze divien fantasma di scherno. Tutta intera una storia qua e colà atteggiata in due personaggi; vasta, commovente, dal cui mezzo si svolge una schiera di fantasmi, che pascono gli spettatori di severo e delicato piacere”. Secondo quanto scritto da Pietro Selvatico (1863) il pittore: “manifestò quanto sappia scegliere tipi amabili, carezzevoli anche copiando senza idealismi il naturale; peccato soltanto che il suo pennello s'intinga troppo volentieri nelle tinte neutre fredde, da cui ne venne un'intonazione di color piombo a tutta la gentil sua tela”. Quest'opera viene annoverata, come scritto dalla Mampieri (2018), tra quelle della collezione del bolognese Severino Bonora. Essa si prestava, come altre presenti nella stessa collezione, a una riflessione sulle arti come strumento di trasmissione d'idee morali, cristiane, patriottiche, secondo un pensiero condiviso da Bonora e largamente partecipato con il circolo di artisti e intellettuali che frequentava la sua casa e soprattutto la sua raccolta di opere d’arte, incisioni, e la biblioteca, messe a disposizione degli studiosi e di coloro che non potevano permettersi materiali così aggiornati e rari.
Morte, indifferenza e ribellione, caratteristiche del Maledettessimo baudelaireiano, si fondono nei romantici versi di Olindo Guerrini (alias Lorenzo Stecchetti): Il canto dell’odio (1877). La chiara ostilità nelle parole “Io con quest’ugne scaverò la terra/ per te fatta letame/ e il turpe legno schiuderò che serra/ la tua carogna infame” prende vita sulla tela di Piero Pajetta che, con L’Odio del 1896, traduce in immagine la macabra scena: una bara scoperchiata, il cadavere di una donna ormai caduta nel sonno eterno e sopra di lei un uomo, l’amante respinto che si vendica oltraggiando il corpo della defunta. Lì nell’ombra assistiamo, inevitabilmente affascinati e impotenti tra le tenebre, in assenza di pietà e di luce, al crudo vilipendio. Ancora un ultimo esempio che rimanda all'ambito letterario è l'opera del bolognese Luigi Busi, la Monaca, di cui esistono diverse versioni. Il dipinto è ricco e accurato in ogni particolare: dal cotto del pavimento alle pareti della cella, dal tessuto della coperta all'intaglio dell'inginocchiatoio, dai fiori nel caso alle cavolaie appena entrate dalla finestra aperta su una giornata di sole. I pensieri della giovane suora sono distratti dall'irruzione dell'aria primaverile e dalla consolazione di una natura amica che invia, come sue messaggere, le farfalle. Una coincidenza di sentimenti turbati e di manifestazioni naturali che richiamano le pagine di Storia di una capinera scritte da Giovanni Verga nella Firenze del 1869, immaginando le confidenze epistolari fra una novizia e l'amica scampata al convento: “ieri una farfalletta tutta bianca venne svolazzando a posarsi fin sui vetri della finestra. Tu, benedetta dal Signore, che vedi il sole, che respiri l'aria libera a pieni polmoni, non puoi farti un'idea di quel senso di tenerezza che può recare la vista di una farfalla, il profumo di un fiore, all'anima di un'inferma! Mi pareva che tutto il lieto corteggio della primavera, il venticello profumato, il verde dei prati, il canto mattutino dell'allodola aleggiasse intorno a quella farfalletta, e fosse venuto ad allegrare il doloroso asilo di tante derelitte. Ahimè! La farfalla dopo di essersi fermata un istante su quel triste fiorellino che spunta dal crepaccio del davanzale, si staccò agitando le sue alucce e si perdette nell'azzurro del cielo...era libera, allegra, e ave forse visto tutti quei visi pallidi e tutte quelle lagrime! [G.Verga, Storia di una capinera, ed. cons. Milano, Mondadori, 1965, p.196].
Ornella Chillè
Testo basato sulla conferenza di Ilaria Chia e Ornella Chillè Donne e miti letterari nei dipinti dell’Ottocento. Dal romanticismo alla vita moderna, 29 Marzo 2019, presso il Museo del Risorgimento di Bologna. Bibliografia: A. Mampieri, S. Bonora, Un collezionista bolognese di arte contemporanea in Dall'ideale classico al Novecento, scritti per Fernando Mazzocca, 2018 pp. 143-248; S. Ingino, Luigi Busi, L’eleganza del vero, catalogo mostra 2018; V. Sgarbi (a cura di), Da Cimabue a Morandi. Felsina pittrice, cat. mostra Bologna, 14 febbraio-17 maggio 2017, pp.318-320; O. Chillè, Luigi Busi, dal Collegio Venturoli al Pensionato Angiolini in Strenna Storica Bolognese anno LXV- 2015 p. 79-102; C. Sisi, Speranze perdute in Cabianca e la civiltà dei Macchiaioli, 2007, pp. 47-53; R. Grandi (a cura di) Dall’Accademia al vero, La pittura a Bologna prima e dopo l’Unità, 1983 pp. 156-159; 193- 202; L'Emporio Pittoresco, “Illustrazione Universale” , anno VI. (1869) n. 268, p. 239-240; P. Selvatico, Arte e artisti: studi e racconti, Sacchetto 1863; L. Toldo, in Le “Gemme d’arti italiane”, XII, 1859, Tipografia P. Ripamonti Carpano, Milano-Venezia, p. 1; M. De Grassi, La Società di Belle Arti e la nascita del sistema museale triestino in www.artericerca.com.