Schede
"Quando mio nonno morì avevo quattordici anni. Mio padre quel giorno venne a casa con un faldone in mano che il nonno gli aveva dato. Incuriosita, lo aprii e lessi la dedica che il nonno aveva scritto a tutta la sua discendenza. Quel faldone conteneva i ricordi della sua vita, che scrisse in tre copie per i tre figli. Mio nonno si chiamava Otello Zaccaroni, nacque a Medicina nel 1915 e lì visse circa una trentina d'anni. Il suo gesto è stato come un seme piantato nella mia anima, che pian pianino ha cominciato a germogliare, fino a quando con sguardo adulto sono riuscita a capire quanta ricchezza contenessero le sue pagine e come nobile fosse l'intento che si era prefissato con la stesura di questo lungo testo: tramandare il ricordo dei nostri avi e dei compaesani che lui conosceva. Perchè la storia di un paese non è fatta solo di date e grandi eventi, ma soprattutto di tanti pezzi di vita che si intrecciano. Il seguente racconto è tratto dai ricordi di infanzia di mio nonno Otello." (Veronica Zaccaroni)
Mio nonno Ettore Zaccaroni era nato a Medicina. Aveva sposato Teresa Tartaglia e da lei ebbe otto figli. Di mestiere faceva il tintore, con il laboratorio in via Saffi di fianco all’Ospedale. Le responsabilità della vita fecero di mio nonno un uomo pieno di iniziative: in primo luogo aprì una tabaccheria in via Saffi con annessa mescita di liquori e spaccio di generi alimentari, poi successivamente comprò un fabbricato che occupava l’area tra via Cuscini e via Canedi, che anticamente aveva servito da stallatico per i carrettieri di passaggio. Lo pagò la somma di lire ottomila che saldò in comode rate in più anni. Vi aprì un’osteria e con l’aiuto dei figli la gestì portandola a diventare una delle migliori di Medicina. Nelle giornate di mercato il cortile dell’osteria di mio nonno si riempiva dei contadini che venivano ad offrire i loro prodotti nel vicino Foro Boario. Terminato il conflitto mondiale, mio padre Bruno e mio zio Camillo uscirono dalla famiglia del padre e si sistemarono con le rispettive famiglie al primo ed al secondo piano della casa di via Cuscini, sopra l’osteria. Durante la stagione primaverile ed estiva scendevo nel cortile di casa e mi sedevo nelle panche messe attorno ai tavoli dell’osteria di mio nonno mescolandomi agli avventori. Il primo cliente che puntualmente si presentava tra le 18 e le 18,30 era sempre Trippa Michele, birocciaio e soprannominato Michel ed cudazae. Con sè aveva sempre un filone di pane di circa un chilo, una grossa cipolla e formaggio: salutava il nonno, si metteva a capo tavola, mentre la zia Giuseppina gli preparava un tovagliolo con un piatto, forchetta, coltello e gli metteva in tavola sale ed oliera, un bicchiere ed una brocca da un litro di vino. In attesa dell’arrivo di altri clienti, si dedicava alla sua frugale cena. Invariabilmente suggellava il suo pasto con un sonoro rutto e si accarezzava soddisfatto il proprio stomaco sazio. Sopraggiungevano gli altri avventori, in prevalenza muratori e braccianti. Verso le ventitrè salutava la compagnia e si portava alla stalla dove preparava il proprio biroccio e partiva per il fiume di Castel S. Pietro per raccogliere sabbia e ghiaia da portare a Medicina a chi gliela aveva ordinata. Per tutto il tragitto si avvolgeva nel proprio mantello, si sdraiava sul sacco del foraggio per il cavallo e schiacciava un sonnellino perché, diceva, il suo cavallo conosceva molto bene il percorso e lo portava tranquillo a destinazione. Tra gli altri clienti vi erano: Trippa il facchino, conosciuto come Patalòc, ex bersagliere e che lavorava nella balla dei facchini della stazione Veneta; Capellari Primo muratore detto Picita, i fratelli Palmirani più noti come i fiù ed Fasòl, Amadesi Antonio, Trombetti Felice, i fratelli Castellari, Bragaglia Pietro, Bernardi Pietro, Plata Enrico, questi ultimi mutilati di guerra, tutti muratori e tutti ex combattenti della guerra ‘15-‘18.
Non tutte le sere, ma molto spesso, si univa a quella compagnia il vecchio Graldi, meglio conosciuto come Mastai, accompagnato dalla moglie che si univa alle altre donne. Al Graldi si univa spesso anche il suo vecchio amicone, di cui rammento solo il soprannome Figarello. Saltuariamente faceva la sua presenza anche Zucchini Francesco, calzolaio, figlio del garibaldino Furmai meglio conosciuto come Separati. Il Separati, oramai novantenne, aveva una camminata alla bersagliera, era ospitato nel Ricovero e si lamentava spesso col Direttore perché era costretto a vivere tra vecchi cronici ed impotenti, mentre lui sentiva la voglia di vivere. Una volta al mese gli veniva concesso un permesso di una decina di giorni che egli occupava facendo il giro di tutti i contadini di Medicina. Dell’anziano Figarello, in paese, era noto il figlio celibe, falegname. Questo figlio aveva il pallino di non pagare le tasse. Sosteneva che le tasse erano un furto perché venivano pagate in forma induttiva e per mezzo di segnalazioni fornite da determinate persone alla Commissione Comunale Tasse e che molto spesso erano informazioni non attendibili. Questo figlio di Figarello era sempre allegro, diceva di essere bene informato su quali erano i mobili di casa che la legge vietava di pignorare dall’Ufficiale Giudiziario e che egli si era adeguato a tali leggi. Pertanto nella sua abitazione vi erano solamente i mobili che la legge non poteva pignorare. La tavola, le sedie ed il letto li aveva fissati al pavimento e l’armadio lo aveva costruito in maniera che per portarlo via doveva essere smantellato completamente.
I discorsi che sentivo all’osteria erano vari: da una sola parola pronunciata da uno dei presenti, scaturivano tanti amarcord. Una volta, una frase pronunciata da mia madre nel momento in cui mi accingevo ad incamminarmi verso il buio della strada (“Otello, taurna indrì, tra la zeda aiè al lov!” - Otello torna indietro, tra la siepe c’è il lupo), diede l'occasione ai clienti che l’avevano ascoltata di parlare del coraggio e della paura. Iniziarono a parlare del buio nelle strade e poiché spesso era presente all’osteria anche il vecchio Ceroni, necroforo in pensione, arrivarono col discorso sui cimiteri. Da un amarcord ad un altro, si arrivò a rievocare una scommessa tra un muratore ed un calzolaio agli inizi del 1900. Il muratore propose: “Scommetto che tra di voi non vi è nessuno che abbia il coraggio di entrare al cimitero a mezzanotte, in una notte di bufera e ritirare queste dieci lire che farò depositare sull’altare della Cappella, camminando nell’andata e ritorno con passo normale e senza fretta”. La sfida venne accolta dal calzolaio che rispose: “Per me fare quella camminata è cosa da ridere, per dieci lire ogni notte sono disposto a ripeterla ogni giorno e lascerei il mestiere del calzolaio”. Tra i presenti si formò la giuria che doveva controllare la regolarità dell’avvenimento. Dopo alcuni giorni di attesa il tempo prese a cambiare nel senso desiderato ed i componenti della giuria ne parlarono col necroforo che accettò di mettere le dieci lire sull’altare e si prepararono ad assistere allo svolgimento della scommessa. All’ora convenuta, mezzanotte, accompagnorono il calzolaio al cancello del camposanto. Il vento faceva scricchiolare le corone di foglie e fiori finti di lamierino contro le lapidi, mentre il caldo dell’aria faceva sprigionare fiammelle dalle fosse ed il cielo era nero come la pece. Il calzolaio, senza titubanza, scavalcò il cancello e lentamente si incamminò per il lungo viale, sparendo alla vista degli amici rimasti all’esterno. Dopo interminabili minuti, udirono l’amico pronunciare queste parole: “Se non sei un fantasma, ti infilo con il mio trincetto” e subito si udì un tintinnio di catene ed il rincorrersi di passi nell’oscurità. Improvvisamente tutto tacque, e gli amici decisero di scavalcare a loro volta il cancello e verificare che cosa fosse accaduto. Nell’oscurità udirono dei gemiti. Illuminandosi coi fiammiferi si accorsero di una fossa appena scavata in attesa di ricevere qualche ospite. I lamenti venivano proprio dalla fossa. Al suo interno si trovavano il muratore ed il calzolaio. Era successo che il muratore volendo giocare uno scherzo al calzolaio, si era introdotto nel cimitero all’insaputa di tutti, nascondendosi nei pressi della Cappella ed avvolto in un lenzuolo e con alcune catene in mano. Quando l’amico uscì dalla chiesetta cominciò a volteggiargli attorno facendo tintinnare le catene, ma la reazione del ciabattino gli consigliò di scappare. Inseguito tra le fosse, non si avvide di quella aperta e vi sprofondò dentro, ed il calzolaio lo inseguì nella caduta. Soccorsi e portati all’ospedale, a conseguenza dello choc riportato, non si ripresero più e morirono entrambi a pochi giorni uno dall’altro. Il racconto era stato così veritiero che interpellai mio nonno Pietro che era cliente dell’osteria Pistarèn ed egli mi confermò che il fatto era veramente avvenuto negli anni della sua gioventù.
A Medicina vi erano alcuni tipi stravaganti per cui gli aneddoti che passavano di bocca in bocca erano tanti. Il più buontempone di tutti fu Nonni Luigi, conosciuto come Buferla, di mestiere lardarolo. Una volta ideò uno scherzo ai danni di una arzdaura taccagna che arrivava da Villafontana e che al mercato aveva l’abitudine di magnificare le uova del suo pollaio, screditando invece quelle delle altre arzdaure campagnole. Buferla chiese ed ottenne dal Baiesi di trattare personalmente l’acquisto delle uova di quella massaia e le rivolse queste parole: “Cara la mia massaia, tutti sappiamo che le vostre uova sono le migliori, ma io pagandovela ne vorrei aprire una per assicurarmi che sia veramente fresca!”. Pagò l’uovo e tenendo nascosto alla vista della massaia un marengo d’oro, l’aprì dinanzi a lei. Dall’albume estrasse la moneta lasciando la povera donna con gli occhi sbarrati dalla meraviglia. Anche i passanti, che incuriositi si erano fermati, lo udirono dire: “Massaia bella, mi perdoni se non ho avuto fiducia nelle sue parole: le compero tutte le uova ed il marengo me lo tengo io perché avendole già pagato l’uovo che ho aperto esso è mio!”. La povera donna, ancora nella certezza che veramente le sue galline producessero uova contenenti marenghi disse: “Aum spies dimondi, però dop quòl cà io vest, il mi ov an li vond piò, a taurn a chè mì!” (mi dispiace, però dopo quello che ho visto, le mie uova non le vendo più e torno a casa mia). Riprese la strada di ritorno ed appena rimasta sola si fermò presso il primo paracarro che incontrò ed iniziò ad aprire una alla volta tutte le sue uova. Purtroppo non trovò nessun marengo. Altro tipo eccentrico era Cavalli Vinanzio, detto Venenzi. Per malattia sofferta nella sua infanzia, una rotellina del suo motore centrale era saltata. Era amico di tutti i ragazzini coi quali si intratteneva nei loro giochi infantili. Nelle giornate di festività, tanto religiose che civili, aveva la fissazione di percorrere le vie del paese imitando il suono delle campane e di rammentare a tutti la solennità della giornata. Mio zio Camillo gli propose di presentarsi alla nostra osteria nelle ricorrenze tanto civili che religiose e ripetere in cortile tutto il repertorio campanario. Puntualissimo il giorno stabilito si presentava e dava inizio al suo repertorio. Quando gli avventori gli chiedevano quale fosse il suo cognome, egli rispondeva battendo un piede a terra e contemporaneamente muovendo il braccio destro all’altezza del suo sedere imitando il movimento della coda, per far comprendere che era Cavalli. Nella nostra osteria, dove gli avventori erano tutti ex combattenti, gli veniva sempre richiesto di cantare gli inni di guerra e l’accompagnavano battendo forchette, bottiglie e bicchieri. Terminata l’esibizione riceveva sempre in omaggio grosse fette di ciambella, buoni bicchieri di vino ed una mancia in denaro.
Otello Zaccaroni
Testo tratto da "ALL’OSTERIA DI VIA CUSCINI" in "Brodo di serpe - Miscellanea di cose medicinesi", Associazione Pro Loco Medicina, n. 16, dicembre 2018.