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L’economia bolognese negli anni dell’unificazione

Sociale 1860 | 1914

Schede

All’indomani dell’annessione al Regno sabaudo, sancita dal plebiscito dell’11 e 12 marzo 1860, la città di Bologna si trova a dover affrontare le conseguenze della politica economica condotta dallo Stato pontificio, caratterizzata da elevate tariffe doganali, difficoltà di trasporti, scarsa circolazione di capitali. Pur mantenendo il primato economico e industriale sulle altre città emiliane, Bologna è rimasta esclusa dal rapido processo di industrializzazione che ha coinvolto l’Europa e le città dell’Italia settentrionale; il traino dell’economia bolognese è e rimane l’agricoltura, attorno alla quale ruotano l’artigianato, il commercio, il credito e le poche industrie scampate alla concorrenza nazionale ed estera.

L’unificazione accompagna il processo di crescita dell’agricoltura, già in atto da diversi decenni, e, sino alla crisi agraria degli anni Ottanta, la produzione di frumento, granturco, riso, canapa e foraggi aumenta costantemente; parallelamente la produzione manifatturiera sconta l’apertura del mercato e la politica liberista nel nuovo Stato unitario e si vede costretta nel migliore dei casi a rinunciare alle fasi più avanzate di lavorazione, se non ad interrompere l’attività, come dimostra il caso della tessitura serica, schiacciata dalla concorrenza lombarda (l’unica industria tessile di una certa importanza rimane il canapificio della Canonica fondato nel 1851). Se molti piccoli produttori, impoveriti, vendono la propria forza-lavoro, i detentori di capitali ripiegano in sicuri investimenti fondiari o nei titoli della rendita; il settore industriale appare largamente subordinato all’economia agraria e all’alleanza tra proprietà terriera e capitalismo affarista, mentre l’Inchiesta agraria e industriale condotta da Stefano Jacini tra il 1877 e il 1874 denota la quasi totale assenza di un’ideologia industrialista, cui si aggiunge la mancanza di una cultura specifica che riguardi le leggi della produzione e del mercato. La misura del protezionismo granario, introdotta nel 1887 a seguito della crisi agraria che travolge l’intera Europa, modifica sostanzialmente le linee di sviluppo dell’economia agricola regionale favorendo la penetrazione del capitalismo. Gli unici beneficiari della nuova politica commerciale sono tuttavia i grandi proprietari e affittuari agricoli, mentre le piccole aziende contadine vedono ostacolato ogni processo di specializzazione colturale, unica possibilità di trovare uno spazio autonomo nel mercato. Ma a pagare le maggiori conseguenze delle nuove tariffe protettive è il proletariato agricolo, formato da ex coloni e piccoli proprietari terrieri costretti alla condizione di lavoratori salariati: la disoccupazione periodica si abbatte sul bracciantato e coloro che non scelgono la via dell’emigrazione subiscono un progressivo deprezzamento sul mercato del lavoro, condizione da cui prenderanno il via le prime forme di cooperativismo e i grandi scioperi nei primi anni del Novecento.

Il capitalismo agrario si rafforza grazie all’eccesso di manodopera su cui può contare e continua a svolgere la sua funzione di incentivo allo sviluppo di industrie di trasformazione intese come appendici dell’economia agraria. Il salto di qualità avviene con l’Esposizione del 1888, in cui Bologna si propone come centro produttivo di importanza nazionale: a questo periodo risale l’espansione dell’industria alimentare (nei rami molitorio, caseario, brillatura del riso, carni insaccate) accompagnata da sensibili progressi tecnico-produttivi; l’impianto della produzione saccarifera, l’introduzione e la diffusione di piante industriali, come la barbabietola da zucchero e il pomodoro, segnano l’inizio dello sviluppo autonomo che caratterizzerà la fase ciclica espansiva dell’industria emiliana, sostenuta dalla penetrazione di capitali extraregionali. Nel settore meccanico si rafforzano le aziende già presenti sul territorio (Calzoni, Barbieri, De Morsier) che orientano la produzione verso impianti idroelettrici, turbine idrauliche, pompe e compressori per la refrigerazione; la famiglia Maccaferri dal 1879 è impegnata nella costruzione di gabbie di ferro per argini e catene per edifici pericolanti, mentre qualche anno dopo la ditta Zamboni & Troncon realizza le prime macchine per la fabbricazione di paste alimentari (in primo luogo del tortellino, uno fra i più rinomati prodotti bolognesi).

Accanto al settore meccanico, il ramo alimentare costituisce una delle realtà più importanti del panorama economico cittadino: dal 1796 infatti opera a Bologna la ditta Majani, nota a livello nazionale per la produzione di cioccolata solida, mentre pochi anni dopo prende avvio la produzione dei liquori Buton; la grande tradizione della mortadella, portata avanti, tra gli altri, dai “salsamentari” Fratelli Zappoli e Medardo Bassi, trova nel metodo di inscatolamento di Alessandro Forni la strada per una più massiccia esportazione, favorita dallo sviluppo delle comunicazioni ferroviarie; nella produzione farmaceutica dal 1901 predomina la Gazzoni con la Pasticca del Re Sole e l’Idrolitina. A differenza del settore meccanico, che fino alla fine del secolo non sarà in grado di reggere il confronto con la produzione europea, l’industria alimentare, soprattutto nel ramo salsamentario, è attivamente presente alle Esposizioni nazionali e universali. Nel corso degli anni Bologna si dota delle infrastrutture che vanno diffondendosi sul territorio nazionale e nel 1889 viene varato il primo piano regolatore che intende dare alla città un aspetto urbanistico rispondente alle nuove esigenze. A differenza di molti comuni della provincia che passano rapidamente all’illuminazione pubblica attraverso l’elettricità, a Bologna l’elettrificazione dell’illuminazione cittadina viene completata solo dopo la prima guerra mondiale; nel 1900 vengono municipalizzate la produzione e la diffusione del gas. Nonostante questi significativi sviluppi, il quadro economico bolognese continua ad essere caratterizzato dal predominio del settore agricolo; l’industria emiliana mostra tutti i limiti della sua crescita, principalmente negli anni critici che seguono al 1910: l’alta percentuale di lavoratori saltuari, gli stabilimenti tecnologicamente arretrati, il mancato rinnovamento degli istituti di credito nei confronti delle nuove esigenze industriali incidono negativamente sulla crescita dei nuovi settori, non ancora in grado di modificare in maniera sensibile la vita economica del territorio. Bologna, alla vigilia della prima guerra mondiale, non è ancora entrata nella fase di decollo industriale.

Mara Casale