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L'impresa di Fiume

12 Settembre 1919

Schede

Il 29 ottobre 1918 a Fiume si costituirono due consigli nazionali (il primo italiano, il secondo croato) che reclamavano l'annessione della città dalmata alle rispettive “patrie”. Il giorno successivo, il Consiglio Nazionale Italiano emanò un proclama nel quale si invocava l'unione della città al Regno d'Italia, chiedendo pertanto l'intervento della marina sabauda. In attesa che la Conferenza di pace di Parigi (che si sarebbe aperta presso la Reggia di Versailles nel gennaio successivo) decidesse il suo destino, venne inviato un corpo di occupazione internazionale, guidato da un generale italiano: nei mesi che seguirono, la tensione tra gli irredentisti locali e la componente croata aumentò vertiginosamente.

Nel contempo, in Italia un vasto movimento animato da Gabriele d'Annunzio e composto principalmente da reduci, irredentisti, repubblicani, nazionalisti, futuristi e aderenti al neonato movimento fascista si mobilitò per la tutela dei diritti della componente italiana nella regione adriatica.

Lo stato di tensione crescente portò alla nascita di una Legione di volontari irredentisti, al fianco della quale si mosse l'Associazione Trento-Trieste, retta allora dal nazionalista Giovanni Giuriati: il fine di questo coacervo di forze, che vide anche la partecipazione di militari e repubblicani, era quello di occupare la città con la forza, se la Conferenza di Versailles avesse deciso di assegnare Fiume al neonato Regno dei Serbi, Croati e Sloveni.

Nell'agosto 1919 una brigata di granatieri, coinvolta in uno scontro con le truppe francesi di stanza a Fiume, fu costretta dalla Commissione interalleata ad abbandonare la città dalmata. I soldati si acquartierarono a Ronchi, determinati a rientrare nell'odierna Rijeka: accordatisi con D'Annunzio, decisero che da quella cittadina friulana sarebbe partita l'azione per l'annessione di Fiume.

L'11 settembre i legionari si mossero da Ronchi, giungendo alle 11:45 del giorno successivo nella città dalmata. Le truppe alleate furono consegnate nelle caserme, mentre D'Annunzio venne nominato “Comandante” di Fiume, insediandosi nel Palazzo del Governatore.

Nella mente del poeta pescarese, la rivendicazione della città all'Italia era solo il primo passo di una rivoluzione che avrebbe dovuto «travolgere l'ordine costituito», provocando la caduta del governo presieduto da Francesco Saverio Nitti dando così spazio ad una «grande sollevazione dei reduci e degli irredentisti, e dall'Italia “fiumanizzata” sarebbe partita la sfida all'ordine mondiale imposto dalle grandi potenze riunite a Versailles».

Il governo italiano condannò l'impresa, attuando un blocco attorno alla città occupata e invitando al contempo i militari ribelli a rientrare nei ranghi. Allo stesso tempo, Nitti autorizzò il Commissario per la Venezia Giulia Pietro Badoglio ad avviare delle trattative con D'Annunzio. Questi però denunciò il Presidente del Consiglio come «nemico pubblico della causa», ribattezzandolo “Cagoja”, dal nome di un popolano triestino che si dimostrò particolarmente pavido sotto il dominio asburgico.

D'Annunzio inoltre protestò vivamente con Benito Mussolini, accusandolo di «appoggiare solo a chiacchiere l'impresa fiumana».

Confermato alla guida del governo anche dopo le elezioni del novembre 1919, Nitti tentò di risolvere la sedizione per via negoziale: Badoglio propose a D'Annunzio la proclamazione di Fiume “città libera”, presidiata da truppe italiane, con la prospettiva di una futura annessione al Regno d'Italia. Il 15 dicembre questo accordo fu sottoposto al Consiglio Nazionale di Fiume, che lo approvò, e due giorni dopo fu indetto un referendum che ratificasse l'intesa. Centinaia di legionari però dimostrarono la loro contrarietà abbandonandosi a violenze ed intimidazioni: il “Comandante” sospese perciò lo scrutinio, dichiarando nullo il plebiscito. Di conseguenza, Giovanni Giuriati si dimise da capo di gabinetto, mentre Badoglio abbandonò il tavolo delle trattative. D'Annunzio, da parte sua, annunciò che la resistenza fiumana sarebbe durata «fino all'ultimo tozzo di pane, e fino all'ultima goccia di sangue».

L'abbandono dell'ala più moderata diede occasione al poeta pescarese di imprimere una svolta rivoluzionaria al governo della città: all'inizio del gennaio 1920 Alceste De Ambris fu nominato nuovo capo di gabinetto, e sarebbe stato proprio il leader del sindacalismo rivoluzionario ad ispirare la Carta del Carnaro, il testo costituzionale della Reggenza fiumana che sarebbe stato promulgato il 30 agosto successivo.

Nel mentre, in Italia, il governo Nitti cadde per questioni di politica interna: nel maggio 1920 la guida dell'esecutivo fu assunta dal settantottenne Giovanni Giolitti, che puntava ad accordarsi col regno jugoslavo per porre termine alla questione adriatica, addomesticando allo stesso tempo le frange combattentistiche.

Nell'ottobre D'Annunzio emanò un nuovo ordinamento militare che scardinava le vecchie gerarchie dell'esercito legionario: ciò gli costò il sostegno di diversi alti ufficiali, tra i quali il generale Sante Ceccherini. Il 12 novembre, poi, il Regno d'Italia e quello jugoslavo firmarono il Trattato di Rapallo, che risolveva la questione fiumana dichiarando la città uno “Stato Libero”. L'opinione pubblica e molti dei protagonisti videro questa firma come un risultato positivo: lo stesso De Ambris invitò il Comandante «a rinunciare a una resistenza inutile e pericolosa». Una volta che il Trattato fu ratificato dal Parlamento, il governo aveva tutti gli strumenti legali per porre termine all'impresa dannunziana. Giolitti affidò pertanto al generale Enrico Caviglia – che aveva sostituito Badoglio nel ruolo di Commissario per la Venezia Giulia – il compito di smobilitare le forze fiumane. Scaduto l'ennesimo ultimatum, il 24 dicembre le truppe regie marciarono su Fiume. Dopo la tregua natalizia, il 26 dicembre l'assalto riprese con maggior vigore: all'accanita resistenza dei legionari, la marina rispose bombardando le posizioni nemiche, tra le quali il Palazzo del Comando. Il 28 dicembre il Consiglio di Reggenza si pronunciò in favore della resa: D'Annunzio rassegnò immediatamente le sue dimissioni, rivolgendo questo messaggio Agli Italiani:

«Mentre m'ero preparato ieri al sacrificio e avevo già confortato la mia anima, oggi mi dispongo a difendere con tutte le armi la mia vita. L'ho offerta cento volte nella mia guerra, sorridendo. Ma non vale la pena di gettarla oggi in servigio di un popolo che non si cura di distogliere neppure per un attimo dalle gozzoviglie natalizie la sua ingordigia, mentre il suo Governo fa assassinare con fredda determinazione una gente di sublime virtù come quella che da sedici mesi patisce e lotta al nostro fianco e non è mai stanca di patire e lottare».

Il “Natale di sangue” terminò con la morte di una cinquantina tra legionari, soldati regolari e civili, ed il ferimento di oltre duecento persone. Il 31 dicembre il sindaco di Fiume ed il generale Caviglia firmarono un patto che stabiliva la smobilitazione dei legionari ed il conseguente ritorno in Italia, garantendo loro un'amnistia: lo sfollamento dei combattenti dannunziani ebbe inizio nei primi giorni del 1921, mentre il poeta si trattenne in città fino al 18 gennaio.

Andrea Spicciarelli

Bibliografia: G. B. Guerri, La storia dell'impresa in Disobbedisco. La rivoluzione di D'Annunzio a Fiume 1919-1920, a cura di G. B. Guerri, [s.l.], Contemplazioni 2019, pp. 19-48